Manhunt
John Woo dirige un divertente reboot della propria filmografia
John Woo, il più grande maestro della storia del cinema d’azione, ritorna alle origini con la crime story Manhunt (2017), un ottovolante adrenalinico all’insegna della violenza tra sparatorie pirotecniche, humor “orientale” e sentimentalismo che rischia di apparire come old school e irreale agli occhi del fruitore di Netflix (dove è stato distribuito di recente), poco cinefilo e avido di visioni semplicistiche.
Il funambolico regista di Hong Kong che amava Melville e Peckinpah, per decenni sembrava aver perso il mojo, incartato prima nella missione impossibile di imporsi ad Hollywood e poi ancora in Asia con istituzionali kolossal storici come Red Cliff (2008) e il dittico The Crossing (2014). Reinterpretando con bona fide un classico di Jun’ya Satô degli anni ’70, in Manhunt suona con malinconia e inventiva uno spartito che rievoca i suoi più grandi capolavori: The Killer (1989), Hard Boiled (1992) e i due A Better Tomorrow (1987). Pellicole con una grande tensione epica ed etica che spiegano oltre l’idea di cinema anche il codice d’onore di Woo: i valori della lealtà e dell’amicizia, l’importanza di perdonare e di essere disposti a sacrificarsi se necessario.
Il pretesto narrativo è un archetipo del cinema di Alfred Hitchcock: un innocente accusato d’omicidio che per salvarsi deve ritrovare il vero colpevole. L’uomo in questione è Du Qiu (Zhang Hanyu), un avvocato di successo fuggitivo dopo essere stato ingiustamente ammanettato per l’omicidio di una prostituta. Invece Yamura (Masaharu Fukuyama) è il detective selvaggio assegnato alla sua cattura. Presto i due si troveranno a unire le loro pistole per sgominare un’azienda farmaceutica dalle ambigue intenzioni.
L’intero film è un omaggio allo stesso regista, tra rallenty, colombe svolazzanti, freeze frame, giri vorticosi di camera e colonna sonora condita di sax. Il volume di fuoco stordisce e tutto è in proporzione, dal romanticismo flamboyant dei personaggi alle esagerate svolte dell’intreccio primario. Se per registi contemporanei può valere l’adagio less is more (vedasi l’approccio al thriller di Kore-Eda in The Third Murder ancora con Masaharu Fukuyama ) non è così per John Woo: more is more. Per lui l’eccesso è sempre il segno dell’inattualità poetica di un mondo fuori tempo massimo. Per quanto gli occhi possano ringraziare sentitamente nel rivedere le leggendarie sparatorie coreografate come fossero balletti, c’è qualcosa di patetico in un autore che saccheggia la propria eredità per un ennesimo film d’intrattenimento. Come patetici sono i protagonisti principali, sia nell’interpretazione che nella scrittura, soprattutto se confrontati all’eroe della filmografia del regista: Chow Yun-Fat, epitome della coolness e del cavaliere errante in un mondo dominati dalla bramosia capitalista e dalla violenza.
Manhunt più che Hard Boiled è Soft Boiled, ma nonostante le numerose debolezze della storia ha un suo fascino. Si potrebbe dire che non c’è uomo migliore di John Woo per fare una parodia di un film di John Woo?