Made in China – Le Vie Del Fool Perinelli

Il ricatto dell’autismo forzato

Debutta a Teatri di Vetro 'Made in China' di LeVieDelFool

“Tutti quanti vogliamo spiegarci, nessuno vuole essere dimenticato.”

Provate a rileggerla, facendo particolare attenzione alla doppia accezione di “spiegare”, perché in questa battuta si nasconde forse tutta l’essenza del nuovo spettacolo di Leviedelfool – e non solo.

Spiegare sé stessi, infatti, sottende la volontà di imprimere una certa direzione all’ impressione che daremo di noi. Tutti quanti vorremmo poter dire agli altri che non siamo solo ciò che appariamo, che siamo qualcosa di più che una contrazione di gesti stereotipati e parole giuste mai trovate. Tutti quanti vorremmo sottrarci dall’impaccio dell’ anonimato. Chiunque di noi lo desidera. E Simone Perinelli proprio qui ci trasporta, nel mondo degli in(di)spiegati chiunque.

Un signor chiunque è Vincent Van Gogh, per lo meno in vita, intrappolato nella sua gabbia di carne fragile, nervi scossi e sentimenti irrisolti; un signor chiunque lo è un copista cinese, piccolo ingranaggio all’interno di una nazione che ha fatto della replicazione esasperata la sua forza trainante. Entrambi perseguono l’evasione (la “distensione”), entrambi rimangono schiacciati dalla durezza della realtà.

Ma come è possibile che un chiunque diventi un qualcuno? E cosa fare quando questa evoluzione è destinata al fallimento? È proprio qui che interviene l’arte, rendendo possibile l’improbabile: il ritratto, l’autoritratto concede lo spazio per dare vita nonché forma a quel mondo interiore rimasto inespresso.

Foto di scena ©Nico Bruchi

La scena pertanto ci appare come una grande tela bianca (il pavimento) schiacciata dall’incombenza di tre pareti nere. Davanti a noi, un ombrellino cinese comincia a ruotare su sé stesso tra le mani di Claudia Marsicano: a ogni giro un bagliore giallo investe lo sguardo; l’ombrellino vortica veloce, il disegno dipinto si confonde in spirale, il sorriso sulle labbra della ragazza si fa sempre più affettato; questo oggetto così esotico perde poco a poco di autenticità, diventa paccottiglia kitsch, svuotata, inflazionata, proprio come l’ennesimo girasole di Van Gogh appeso al muro di un bar o di uno studio medico.

C’è un senso di valore che è saltato in questa società.

Perinelli giunge allora sul palco come un daimon, un demonietto dispettoso, una sorta di guardiano dello spirito del tempo, vestendo ora i panni di Van Gogh ora quelli del copista cinese, infondendo quella voce che ogni volta rimane inascoltata. Ritornano i pensieri del pittore olandese, i suoi deliri, le lettere, ma anche spaccati di contemporaneità, da una sartoria cinese all’arredo Feng Shui, con innumerevoli echi di film, libri, serie tv, quasi a fare del pop un pastiche improbabile eppur possibile di verità (cfr. Requiem for Pinocchio). In questo mondo di apparenza coatta, però, la verità fatica incredibilmente a trovare spazio: è obsoleta.

Foto di scena ©Nico Bruchi

Ecco allora che la scena comincia a guastarsi: crolla a terra un riflettore, il microfono fa falso contatto, si interrompe la voce, le battute si inceppano, si ripetono, si smarriscono. Tutto è ormai Made in China, perché prevale l’accumulo – non l’uso. Si compra e si vende, si vende e si compra, poi forse ci si interrogherà sul perché, ma l’importante intanto è che il meccanismo continui a girare. E così impazziamo tutti, inevitabilmente: impazzisce chiunque voglia conservare la sanità della propria sensibilità.

Foto di scena ©Nico Bruchi

Lo spettacolo di conseguenza non può che essere caratterizzato da questa sintesi impossibile: si fatica forse a cogliere una visione d’insieme (e la presenza della pur notevole Marsicano, interlocutore volutamente impossibile, a tratti rischia di diventare accessoria) a volte i quadri si affastellano, a volte si espandono, alterando continuamente il ritmo.

Ciononostante – o proprio per questo – i corvi gracchiano ancora più eloquenti su questo desolato campo di grano, la notte stellata irradia il suo splendore inquieto: come le pennellate tozze e viscose di Van Gogh, gli stimoli lanciati da Leviedelfool si affiancano e si stratificano, costringendoci continuamente a rivedere la nostra impressione.

Vinent Van Gogh Campo di grano con volo di corvi (1890) ©Van Gogh Museum, Amsterdam

La sensibilità che sprigiona Made in China, infatti, è tale da colmare ogni falla (imprescindibili le musiche originali di Massimiliano Setti e il disegno luci di Marco Bagnai). A muovere l’intero spettacolo è un’urgenza appassionata e sincera di dare voce al silenzio degli incompresi, di spiegare l’interiorità accartocciata di chi finisce per diventare fatalmente impermeabile a sé e agli altri.

Il ritratto, d’altronde, che sia un autoscatto o che sia un quadro, è sì un frammento di sé ma è anche un “ritrarsi” dal mondo. E non è difficile, dopotutto, scorgere in questa scelta la denuncia delicata ma decisa di chi non vuole – nel teatro, nella vita – cedere al ricatto dell’autismo forzato: perché una società che ci costringe a inseguire l’apprezzamento postumo è una società che ha fallito.

“Tutti quanti vogliamo spiegarci, nessuno vuole essere dimenticato.”

Letture consigliate:
Requiem for Pinocchio. La scoperta dell’esistenza, di Giulio Sonno
“Made in China”, alla ricerca di noi stessi attraverso i selfie, di Tommaso Chimenti (ilFattoQuotidiano)

Ascolto consigliato

Teatro Vascello, Roma – 6 novembre 2015

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