Lost in Santarcangelo
Orientarsi tra interrogazioni, attivismo e processi artistici
Interrogazioni e Indignazioni
Santarcangelo Festival. Partiamo dalla fine, da quella doppia interrogazione di FdI e Lega (alla regione e alla Camera) che tanto ha indignato l’ambiente teatrale. Partiamo da lì e cerchiamo di stare con i piedi per terra. Facciamo due conti.
Nel 2014 Fratelli d’Italia con 23.052 voti si è accaparrato un seggio, 1 dei 50 in regione: il Consigliere Foti cioè rappresenta il 2% dell’elettorato emiliano-romagnolo.
Alle politiche del 2013, la Lega Nord se ne aggiudicò 35, che oggi – tra Camera e Senato – ammontano a 31: 31 su 850 seggi, cioè meno del 4% dell’elettorato italiano.
Queste le cifre: 2% e 4%.
Perciò—di cosa ci stiamo preoccupando? Che forze politiche notoriamente conservatrici esprimano la loro minoritaria posizione?
Finché non intervengono minacce, manomissioni o violenze, tutto rientra nelle forme previste dalla democrazia rappresentativa. O temiamo che una scarica estemporanea di recensioni negative su Facebook possa avere qualche effetto reale? Per carità, non si sa mai, però condannare con tanto ardore l’oscurantismo di forze politiche dal seguito così ristretto desta qualche perplessità sullo stato di salute e sul senso della realtà dell’ambiente teatrale. Bene il sostegno, ma forse era auspicabile una presenza di spirito più “virgiliana”:
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di loro, ma guarda e passa.
Il social tocca la pancia, si sa, e certe posizioni giustamente indignano, ma siamo anche dotati di ragione. Ne dobbiamo fare proprio una questione di tifoseria?
SantaParty
Si prenda anche la facile polemica sull’uso delle parole «party» o «performance». Se la commissione di Santarcangelo dei Teatri ha deciso di soprassedere a quel
Preferibile un’ottima padronanza della lingua italiana e della lingua inglese sia parlata che scritta.
esplicitato nel bando che essa stessa ha lanciato, assegnando la direzione artistica alla bielorussa Eva Neklyaeva, la quale – almeno pubblicamente – comunica solamente in inglese, c’è poco da indispettirsi: a quanto pare ci sta bene questa sudditanza culturale per cui l’italiano in Italia può diventare secondario. Pertanto, molto semplicemente si passa a un’altra lingua: party riprende la matrice «festa» di festival e performance si fa termine omnicomprensivo per qualunque declinazione delle arti performative.
O così come il chiacchieratissimo Merman Blix, con il suo workshop di sirenettitudine in piscina e le apparizioni nelle fontane pubbliche, assurto a icona della libertà espressiva – interiore ancor prima che artistica – promossa da questa nuova edizione. O il discusso «habitat» Club Ecosex degli australiani Pony Express, ambiente multisensoriale a sfondo erotico “green”.
Sì, rigurgiti neofascisti a parte, la proposta suonerà anche inusuale; ma il punto non è tanto valutarne la legittimità, quanto semmai soppesarne il peso specifico artistico.
Sfogliando il programma si può leggere:
In questi anni, abbiamo visto come le istituzioni artistiche siano diventate sempre più piattaforme per generare saperi alternativi, dove nuovi modelli di pensiero sono possibili. Invece di mostrare prodotti artistici finiti, desiderano piuttosto creare spazi in cui le cose accadono, in cui le idee sono messe in discussione.
Arte o attrazione?
Bene. Proviamo allora a seguire il ragionamento. Quale può essere il «modello di pensiero» di un sirenetto? È un caso isolato o una filosofia di vita diffusa? Navigando sul web scopriamo che nel North Carolina, a Greensbro, si tiene uno dei raduni mondiali di «MerFolk». Si spiega che di solito nasce come hobby, poi alcuni lo trasformano in un mestiere tra «paying gig» (esibizione a pagamento), lezioni di «fitness» e più in generale di «mermaiding».
Alla piscina di Santarcangelo troviamo una lunga fila di merfolk wannabe, soprattutto bambini, che si divertono molto a provare la coda e a nuotare da sirenetti. Compresa dunque l’immagine di libertà che un uomo-pesce può emanare, cosa vuol dire che è «in residenza a Santarcangelo»? Sta indagando il suo rapporto con gli ambienti acquatici nostrani? Non si tratta più propriamente di un cosplayer sui generis?
Quanto all’habitat Club Ecosex. Entrando riceviamo un paio di occhialini di cartone: montatura a forma di cuore, lenti sfocate, cosicché ogni led si moltiplicherà alla vista in un alone di cuori.
Due ambienti: nel primo si fa incontro un uomo in slip, ha una sorta di bavaglio da cui pende un ciuffo d’erba; ci strofina le labbra “ecologiche” su un braccio, poi sull’altro, e corona il tutto con una spruzzata d’acqua similorgasmica da un vaporizzatore allacciato ai fianchi. E se ne va.
Ci sediamo allora su un divano: davanti a noi un filmato sulla natura, qua e là riviste porno ecosex, quando dalla siepe alle nostre spalle una mano avvolta in un guanto spugnoso ci accarezza per una manciata di secondi. Scorgiamo poi una fioriera: l’uomo di prima ci srotola un preservativo lungo l’indice, fa segno di penetrare il bocciolo di un’orchidea e annusarne il polline. E se ne rivà. Nell’altra stanza troviamo alcuni materassi a terra, imbaldacchinati tra veli di organze, piante e luci colorate; a un angolo un lettino dove concedersi un massaggio.
Quali sono le idee messe in discussione? Come esperienza immersiva manca di complessità (si pensi al Teatro de los Sentidos); ma anche di radicalità, nonostante sia scritto:
è possibile esprimere liberamente, in un ambiente sicuro, intimo e anonimo, ogni profondo desiderio ecologico
non crediamo che ci si possa abbandonare all’autoerotismo con le piante o a fare sesso sui letti. Anche qui: non si tratta tanto di essere «scandaloso», anzi, diremmo l’opposto, è tutto alquanto ludico, senza rischi, senza eccitazione, l’allestimento è un po’ raffazzonato, poche le interazioni possibili, e piuttosto ingessate. Si fatica a cogliere una tensione artistica, un anelito di libertà, una carica erotica profonda. Si faccia il confronto con la pornografia d’arte degli inglesi Four Chambers:
L’archivio ad arte
Più curato l’altro «habitat»: The Museum of Nonhumanity delle finlandesi Gustafsson e Haapoja.
Il museo presenta la storia della distinzione tra esseri umani e altri animali, e il modo in cui questo confine immaginario è stato usato per opprimere l’umanità, gli animali, la natura.
70 minuti di libera fruizione tra diversi pannelli per una proiezione a ciclo continuo sugli sterminî del passato, tra estratti di cronaca, fotografie d’epoca, definizioni da dizionario, citazioni, ecc., in un assemblaggio de-soggettivato in cui l’artista sembra fare un passo indietro e consegnare la collezione di materiali al visitatore, perché li elabori in prima persona.
Situazione analoga in Between Me and P. di Ceredi. Videoproiettore, scanner e computer alla mano, il filmmaker racconta la storia del fratello maggiore Pietro: mente brillante e inquieta, dileguatosi a 22 anni. Lo fa delegando la recitazione alla digitazione testuale via computer: leggiamo, osserviamo le foto, ascoltiamo le testimonianze di parenti e amici, mentre intanto Ceredi distribuisce sulla scena alcuni materiali di questo ricco archivio di memorie, che il pubblico potrà visitare alla fine.
Anche stavolta una sottrazione quasi totale dell’artista: pacata, umile, discreta. Trattandosi tuttavia di una performance, questo negarsi ne fiacca il ritmo, non riuscendo a mantenere sempre attivo quel contatto empatico che ad esempio appartiene a MM&M di Cuocolo/Bosetti o Cose di Tagliarini e Deflorian (quest’ultima pur tutor in residenza di Ceredi alle Moire), dove è proprio la voce dell’attore a sprigionare il correlativo oggettivo dei materiali.
Processi ed espedienti
Quanto alle altre performance probabilmente siamo capitati nei (tre) giorni meno felici del festival: i finesettimana hanno visto una proposta più sostanziosa (Gribaudi, Bersani/D’Agostin, Elagoz – la replica del 13 è saltata per un calo di corrente –, Bertozzi, Motus, ecc.), e il nostro è evidentemente uno sguardo parziale, però abbiamo riscontrato una fragilità strutturale ricorrente, riassumibile schematicamente in: si adotta un espediente, lo si lega a un tema e si prosegue ad libitum finché non si esaurisce.
Stanze di Ortographe è una lettura al leggio: racconto di Ligotti (l’autore che ha ispirato il Rust Cohle di True Detective), ambiente sonoro da thriller, buio pesto, un laser viola rifratto a zigzag, una sfera illuminata multicolore, e l’umido delle cantine di Villa Torlonia. La lettura indugia in un registro monocorde, forzatamente calcato su ogni consonante, reiterandosi in un ritmo da nenia per quarantacinque minuti. «Elaborato come un audiolibro sonoro e visivo»: qualunque cosa significhi, manca anche qui un respiro da attore (si pensi alla ricerca di Guidi o Montanari).
Con Spirit invece si propone un «parallelismo tra carnevali barbaricini e sottoculture come rave clubbing, riti baccanali e immaginario Anime». Tuta acetata Adidas, viso nero, qualche sonaglio e un vello stile Mamuthones, Mara Oscar Cassiani incrocia passi ritmati girando attorno al pubblico nella piazza interna di Villa Torlonia. Dopo pochi minuti lo scampanio viene sovrastato da musica techno: due auto parcheggiate, portiere aperte, casse a pieno volume, strobo e fumo. Di qui, si desterà una dozzina di adolescenti, a ritmo, passi semplici, come in una nuova forma di rito. Così per un’ora e mezza. Il coinvolgimento auspicato del pubblico si traduce in un progressivo allontanamento, direzione uscita: una metà rimane stazionando, alcuni si scatenano entusiasti, ma per lo più stranieri, con un pass d’artista al collo, Sirenetto compreso.
Molar, infine, si incentra sulla carica che uno stato di euforia può trasmettere. Il catalano Bigas corre da una parte all’altra dello Sferisterio: domanda cosa sia la felicità, cosa significhi «essere figo», e poi si lancia in un virtuoso mash-up di movimenti, passi e pose tratti dall’immaginario pop (Elvis, Grease, Pulp Fiction, ecc.); sulla scia di questo entusiasmo incita il pubblico (senza troppo successo) con cartelli dalle scritte gioviali; chiama a sé gli spettatori, formando un corridoio dove proseguirà le danze e correrà infine in posticcio trionfo; a concludere, intonerà una versione intimista di Happy di P. Williams. Cinquanta minuti.
Il paradosso dell’inclusività
Ora. Chiunque abbia avuto modo di parlare con – o leggere qualche intervista a – Eva Neklyaeva e Lisa Gilardino (co-curatrice), avrà sicuramente notato una ventata di brio, entusiasmo e leggerezza. La leggerezza è sempre auspicabile, però se non dosata può rendere tutto inconsistente.
Insomma, il rischio a nostro avviso è quello di riparare la gracilità di certi lavori dietro il comodo paravento della leggerezza, della spensieratezza, del processo in divenire libero dalla costrizione della forma ragionata, cosicché se poi ci si azzarda a dire che un lavoro sembra superficiale automaticamente vuol dire che se ne sta condannando il diritto d’espressione imponendo, a propria insaputa, un modello unico, serioso, intransigente e forse anche fascista di pensiero.
Però siamo in un festival multidisciplinare, non in un centro sociale. Qui si dovrebbero promuovere riflessioni a partire innanzitutto da una ricerca attraverso le arti performative, non viceversa. E osteggiare così smaccatamente – come di fatto è accaduto – la scena teatrale che persegue una ricerca non votata a temi esplicitamente sociali, paradossalmente equivale a discriminarla.
C’è qualcosa che non torna
Non torna la retorica dell’essere «un’istituzione femminista», quando i principali festival teatrali nazionali sono diretti o co-diretti da donne (non che in Italia trionfi la parità di genere, ma teniamoci agli omologhi).
Non torna questa provinciale sventolata di numeri e grandi successi come risposta alle critiche (non solo quelle destrorse). Dimostra insicurezza. Nonché un prono assecondare una «vendita di immagine» che certo non ci aiuterà culturalmente.
Non torna la presenza dei Motus a più livelli: in commissione, come consulente del CdA; in direzione, come co-curatela; in festival, come compagnia associata per il triennio. Forse inopportuna?
Non torna che in questa «facilitazione», in questa «creazione degli spazi», in questo «attivismo», non si sia trovata una mediazione: tra arte e questioni sociali, tra ricerca e disimpegno, tra storia e novità. In fondo è anche grazie ai suoi 46 anni di storia se Santarcangelo ha una lauta disponibilità economica dalle istituzioni, e magari quella storia e questa geografia andrebbero tenute più da conto—non rifarsi solamente alla direzione di Silvia Bottiroli.
Perché a volte si ha l’impressione che si cerchi una novità che di nuovo non ha molto, quando il «vecchio» forse ci sta dicendo qualcosa che, ecco, forse varrebbe la pena cercare e ascoltare. Integrandolo.
Interrogazione o non interrograzione, party o non party, sirenetto o non sirenetto—non si tratta di fare aut/aut. Né di condannare, ironizzare, sminuire o snobbare. Non è questo il punto. È che si poteva trovare una via di mezzo. Noi non l’abbiamo vista. Non abbastanza.
Ascolto consigliato
Letture consigliate:
• A chi serve la critica teatrale? Non al pubblico, non agli artisti: oggi serve ai politici, di Oliviero Ponte di Pino (aTeatro)
Santarcangelo di Romagna (RN) – 11, 12 e 13 luglio 2017