Locarno 65
Reportage dal Festival dei Pardi 2012
Da pochi giorni si è aperta la 65esima edizione il Festival del film di Locarno, anche quest’anno un po’ fuori dagli schemi, un po’ indipendente e un po’ glamour; un carattere camaleontico quello del Pardo che, almeno per quanto riguarda il pubblico, convince ogni anno di più.
Presieduto da Marco Solari e diretto da Olivier Père il festival del pardo s’inaugurerà in Piazza Grande con la consegna dell’Excellence Award Moët & Chandon all’attrice inglese Charlotte Rampling e l’anteprima mondiale dell’interessante thriller britannico The Sweeney in presenza del regista Nick Love e dell’attore Ray Winstone.
Un programma ricco quello del Festival di Locarno di quest’estate, che prevede quasi trecento film tra fiction, doc e cortometraggi provenienti da oltre cinquanta paesi diversi. Il Concorso Internazionale vedrà un’unica presenza per il cinema italiano con Padroni di casa di Edoardo Gabbriellini; tra i più attesi Joao Pedro Rodriguez, Bradley Gray, Jean Claude Brisseau. Parallamente a Cineasti del Presente l’interessantissimo panorama di giovani opere prime e seconde. Numeri elevati anche sul versante omaggi, con la celebrazione di quindici grandi personalità del cinema tra cui Dino Risi e una retrospettiva dedicata a Otto Preminger, che sarà arricchita da incontri aperti al pubblico con ospiti e critici cinematografici.
Tra gli ospiti internazionali più attesi, oltre alla madrina Charlotte Rampling, gli attori Alain Delon, Harry Belafonte, Gael García Bernal, Eric Cantona, Ingrid Caven, i registi Leos Carax, Jia Zhang-ke, Souleymane Cissé, Bertrand Bonello, Krzysztof Zanussi, Claire Denis, Ulrich Seidl, i due presidenti di giuria Apichatpong Weerasethakul e Roger Avary, il produttore americano Arnon Milchan (Premio Raimond Rezzonico), il produttore/regista di Hong Kong Johnnie To (Pardo alla Carriera) e l’icona pop australiana Kylie Minogue. Dall’Italia arrivano invece Elio Germano, Valerio Mastandrea, Ornella Muti, Renato Pozzetto e Gianni Morandi.
Fondamentale poi il ruolo della Piazza Grande (probabilmente il più ampio cinema del mondo) che quest’anno ospiterà anche Steven Soderbergh, Pablo Larrain e Noeme Livosky; e importantissime le continue tavole rotonde sul ruolo della critica, della produzione e della gestione oltre che della direzione della macchina cinema, che fanno di Locarno ogni anno uno snodo fondamentale del panorama europeo.
Une estonienne a Paris – Ilmar Raag
Une estonienne a Paris narra la delicata storia dell’incontro tra una badante che lascia l’Estonia per occuparsi di un’anziana signora estone che vive in Francia da diversi anni, ma al suo arrivo si rende conto di non essere gradita. La sola cosa che l’anziana donna desidera dalla vita è l’attenzione che Stéphane, giovane amante di un tempo, ancora le riserva, mentre lui spera solo che Anne rimanga ad assistere Frida, anche se questa non è d’accordo. A interpretare l’anziana e burbera Frida troviamo l’immensa Jeanne Moreau.
Film a tratti mediocre, prevedibile, gonfio di cliché. Non uno snodo narrativo, non un passaggio, non una battuta che non siano ovvii. Il vero motivo di interesse è il ritorno al cinema della Moreau. Lei domina il film, se lo ingoia, lo adatta a sé, gigioneggia e spadroneggia nei panni di Frida, signora di origine estone (cosa assolutamente insensata, giustificata solo dalla coproduzione), però parigina da decenni, con un passato di cantante, ora sola e malandata. L’unico a occuparsi di lei è Stéphane, ex amante di una trentina d’anni più giovane, che le è rimasto affezionato e non dimentica (e non dimentica nemmeno che lei gli ha regalato il bar con cui lui ha fatto fortuna e soldi). Ed è Stéphane a far arrivare dall’Estonia la badante Anne. Figuriamoci, Frida non la vuole, non vuole nessuno tra i piedi in casa sua, cerca di buttare fuori la neoarrivata, la maltratta, la tiranneggia, la umilia. Il che consente a Jeanne Moreau di scatenarsi nella parte della vecchia capricciosa e indomabile, anche un po’ vieille dame indigne, attraversando tutta la gamma dal maligno-perfido al gentile-condiscendente (a seconda della convenienza e dell’umore). Insomma, la solita storia con la povera badante oppressa dall’impossibile ricca signora, che già tante ne abbiamo viste e sentite. Ovvio che poi tra le due scoppierà la pace, tanto superflua quanto retorica.
Il film di Ilmar Raag racconta una storia di disadattamento, di emarginazione e solitudine ma il regista spesso non è riuscito, non accentuando, ad esempio, gli sbalzi di umore dell’anziana estone con primi piani e le variazioni brusche della colonna sonora, a trasmettere la frustrazione che attanglia ogni personaggio del film.
Il rapporto tra Ann e Frida, colonna portante del film, si basa su un sottile equilibrio, un filo legato in toto all’umore dell’anziana. Il rifiuto della vecchiaia si trasforma nell’accanimento verso Ann, una risposta psicologica comprensibile. La donna estone dovrà riuscire a rompere l’ultimo residuo della barriera che impedisce a Frida di essere serena, ovvero l’ossessivo aggrapparsi al passato. Questo doveva essere e esso non è stato.
Mobile Home – François Pirot
Il film più fresco e, per ora più bello, del Concorso Internazionale. Si tratta di Mobile Home, tragicommedia belga di François Pirot. Due vitelloni (Fellini, non a caso). Simon rientrato nel paesello natale dopo aver lasciato in un colpo lavoro e fidanzata, ritrova l’amico di infanzia, Julien, che per anni era rimasto in campagna ad accudire il padre malato. Entrambi, quasi trentenni, ritrovandosi, non possono fare a meno di ripercorrere con la mente il grande sogno dell’adolescenza: partire per un’avventura “on the road” che sessant’anni dopo la beat generation continua a porsi ancora come esperienza limite per dare un senso alla propria esistenza. L’impulsività di Simon ha la meglio e il giorno dopo acquistano un enorme camper, catapultati così dal sogno alla realtà. Una serie di eventi costringeranno i due amici a rimandare il viaggio più volte. Ma è in quell’immobilismo apparente che possono ricominciare ad affrontare la vita da un’altra prospettiva nel tentativo di crescere, finalmente (forse).
Ma come partire? E quando? C’è un momento giusto per chiudere con la propria vita, seppure triste, spenta, noiosa e già scritta? Simon e Julien, incostante riccioluto e affascinante il primo quanto più tenero, compassato e stralunato il secondo, si ritrovano a vivere su un camper in attesa che questo viaggio si materializzi, tra lavori saltuari, amori reali ed idealizzati, e tira e molla con genitori spiazzati e increduli ma ostinati. Il film è un’acrobazia di equilibri antitetici ben studiati, ed anche ben riusciti. I due personaggi, anche se legati dall’amicizia e dalla condivisione delle esperienze, sono in realtà molto diversi fra loro. Simon è un ragazzo che viene dalla piccola borghesia, è esuberante ma davanti all’età adulta si ritrae per paura di fallire. Julien invece è un ragazzo molto più semplice, da un lato anche facilmente influenzabile, ma è più disposto a mettersi in gioco.
Pirot realizza quasi un bunueliano Angelo sterminatore brillante e romantico, che alla questione di classe sociale sostituisce quella generazionale, mostrando di fatto l’impasse che blocca e cristallizza in un’eterna adolescenza e indovinando la metafora del camper per indicare una giovinezza spesa a fare progetti, sempre pronta a partire, ma in fin dei conti stanziale e rinunciataria.
Il finale senza giudicare lascia aperte due strade, come i racconti a bivio dei giornalini per l’infanzia che, a seconda delle scelte del piccolo lettore, ne sanno indicare già la tendenza all’azzardo, al rischio. Quella messa in mostra è una generazione confusa, senza un’identità precisa, incapace d’amarsi adeguatamente. L’apparente morale della storia è la solita: non si può scappare da sé stessi e tanto meno dalla vita, ancora di più ora dove la globalizzazione ci fa credere che tutto il mondo è paese ed è quasi impossibile (anche solo fisicamente) fuggire. Quella che invece, inoltre, a me appare (anche perché in quella generazione sono dentro) è il solito desiderio, la solita ricerca di un angolino di felicità, di un vento di libertà, la solita bilancia su cui pesi cosa puoi guadagnare o puoi perdere sulla strada, magari in un alba che non doveva essere. Poi, alla fine, è tutto lì: chi voleva partire veramente rimane, e chi era più dubbioso parte, perché tutto spesso è più relativo, irrazionale e leggero di quello che sembra. Non è un capolavoro, neanche un gran film, ma un gioiellino che ci interroga su come ci dovremmo interpellare nello scoprire il nostro ruolo nel mondo. Assolutamente da vedere.
The End of Time – Peter Mettler
Presentato nel Concorso Internazionale il secondo film elvetico in selezione, il documentario The End of Time di Peter Mettler, coproduzione svizzero-canadese con il prezioso aiuto del National Film Board of Canada. La pellicola, visivamente molto intensa, è una piccola odissea sul e attraverso il tempo, che partendo dal CERN ci Ginevra si dipana in giro per il mondo. Difficile descrivere questo The End of Time, cinema visionario, di visioni, allucinazioni e alterazioni dello sguardo e della mente, un riprendere pezzi di realtà per costruire una partitura per immagini.
Tutta questa erranza per porsi una sola domanda: che cos’è il tempo? E forse anche per trovare una risposta. Filosofia a tratti eccessiva (o eccessivamente esemplificata) che attraversa il cinema. Quel che ne esce è un film di una visualità grandiosa ma spesso portatore di un pensiero poco definito; l’unica vera pecca. Dove si perdono le immagini e si trovano le parole, il film latita, vacilla, in qualche senso ristagna.
Così non ci resta che abbandonarsi al flusso di immagini. Quelle della natura che tramite il tempo si evolve e ci rende partecipe del creato. Fiamme, nuvole, fumi, piogge, acque di cielo e acque di terra. Al pari della creazione dell’universo anche la sua distruzione sarà attraversata dalla stessa grandiosa bellezza, così diceva Werner Herzog (o Blaise Pascal come gli si attribuiva) in apertura del suo immenso Apocalisse nel Deserto. Così probabilmente sarà la fine del tempo (un vortice indefinibile di immagini) per Peter Mettler.
Padroni di casa – Edoardo Gabbriellini
Padroni di casa di Edoardo Gabbriellini è l’unico film italiano del Concorso Internazionale di Locarno. Il famoso cantante Fausto Mieli (Gianni Morandi), lontano dalle scene musicali da tempo, vive con la moglie Moira (Valeria Bruni Tedeschi), gravemente malata e costretta sulla sedia a rotelle in un piccolo paese dell’appennino tosco-emiliano dove sta per tenere il primo concerto del grande rientro, nonostante i concittadini nutrano per lui sentimenti contrastanti. Poiché la sua casa ha bisogno di qualche lavoro di ristrutturazione, Fausto si rivolge a Cosimo (Valerio Mastandrea) ed Elia (Elio Germano), due fratelli romani piastrellisti, goffi e inconsapevolmente arroganti. L’arrivo dei due nel paese genera fastidio nei maschi locali, che li vedono come due rivali, e attira l’attenzione di Adriana (Francesca Rabbi) che vede in Elia l’occasione per andar via per sempre da quel posto isolato. Man mano che il concerto si avvicina, aumentano anche le tensioni tra Fausto e Moira e, quando Cosimo involontariamente assiste a qualcosa che non doveva vedere, le reazioni dei padroni di casa saranno inaspettate.
In un cinema italiano abituato a spiegare tutto e a parlare tantissimo, Padroni di casa lascia una grossa quantità di cose sottintese, capite a sguardi e frasi smozzicate scappate quasi involontariamente. Film affollato da personaggi di cui conosciamo solo il presente, e il cui passato lo possiamo intuire unicamente dai segni che portano sul corpo e nell’animo, come il cuore indurito di Fausto Mieli/Gianni Morandi, gli occhi stanchi di sua moglie malata Moira/Valeria Bruni Tedeschi, le violente storie di gelosia di paese che legano gli adolescenti Adriana e Davide, la prepotenza di Calzolari, tipico signorotto di piazza.
Certe scene da bar si riconoscono subito: Gabbriellini finchè riesce ingloba e accumula violenza sottotraccia, inespressa, sequenza dopo sequenza, dalla partita a ping pong alla sbronza di Mastandrea al baretto del paese. E la sensazione di pericolo perenne è acuita proprio dal mistero che circonda la vicenda umana del suo Cosimo (ex-alcolista con conseguenze anche psichiche, passato attraverso la clinica di riabilitazione?), e del fratello Elia (Germano). Anche negli accesi litigi e confronti tra i due senti sempre vicino l’occhio del ciclone (il mosaico a spirale a cui stanno lavorando nella scena di scontro meglio riuscita), la tempesta che sta per arrivare: e bisogna dire che anche quando la rabbia esplode Gabbriellini non insiste mai sui particolari violenti, preferendo stacchi di montaggio anche repentini come due freezeframes (in istanti diversi) su un Mastandrea stravolto. Calcando forse un po’ troppo la mano solo sull’ultima sequenza condivisa da Morandi e la Bruni Tedeschi, che seppur senza sangue è davvero la più insostenibile dell’intero film.
Padroni di casa è una di quelle storie dal destino segnato e ineluttabile, che in effetti va a finire come ti aspetti già dai primi minuti (basta inquadrare subito i riferimenti, soprattutto americani, da Peckinpah a Boorman), ed che ha forse proprio nella chiusura il principale punto debole. Non è un gran film, ha parecchie lacune e spesso si dilunga in (non) spiegazioni eccessive, ma si fa vedere abbastanza volentieri e si merita la sufficienza.
Somebody Up There Likes Me – Bob Byington
Ultimo film statunitense nel Concorso Internazionale di Locarno. Siamo ancora dalle parti del Sundance con Somebody Up There Likes Me di Bob Byington (già conosciuto per Harmony and me). Un altro film chiaramente figlio di quell’ultima ondata di cinema made in USA, con un umorismo lieve e surreale incline a mutare nel sarcasmo e una leggerezza che gli fanno perdonare anche una certa “superficialità”. Il tempo vola per tutti, così come per Max (Keith Poulson), il suo miglior amico Sal (Nick Offerman) e Lyla (Jess Weixler), la stessa adorabile donna che entrambi amano. Per trentacinque anni, la loro vita è fatta di incontri obbligatori e in apparenza insoddisfacenti. Si vedono poche volte ma, quando accade, la magia continua a compiersi.
Tutto accade sempre in pochi atti(mi), saltando avanti di cinque anni a sequenza, passando in rassegna amori, figli, amanti e progetti lavorativi, fino all’epigrafe tombale. Alla fine tutto è forse come prima, il tempo scorre, ma la vita è sempre quella, racchiusa in quella valigia magica che ha accompagnato Max per tutto il suo viaggio; quella valigia che ognuno di noi ha, che vorrebbe sempre aprire e che probabilmente ha quelle risposte che né il destino né la ragione ti potranno mai dare.
Tutto viene fatto scivolare anche attraverso quegli splendidi cartelli animanti che rendono fede all’ingranaggio e ti tengono incollato allo schermo. Forse perché al di là di tutto questo film racconta l’epopea di un uomo tutto sommato inutile. Non rimane solamente la commedia, bensì uno sguardo fluttuante e delizioso, molto simpatico ma a tratti malinconico ed inevitabile sulla condizione di tutti noi.
Leviathan – Lucien Castaing-Taylor, Véréna Paravel
Leviathan, tra gli ultimi lungometraggi presentati nel Concorso Internazionale, sconvolge e affascina Locarno. Il regista ed etnografo inglese Lucien Castaing-Taylor e la documentarista e antropologa francese Véréna Paravel realizzano un opera installativa ai confini della percezione, un film che deve ridiscutere l’idea del documentario e la stessa possibilità di esprimersi.
Il limite della fisicità nel rappresentare questo viaggio nel e sotto l’acqua è il maggiore valore dell’opera. tutto e fisico dalle catene e le funi, fino ai pesci e all’acqua che sbatte contro gli obiettivi delle Go-Pro. Gli umani sono sono pedine all’interno della scatola magica di Leviathan. Non ci sono parole, dialoghi, solo voci distorte dal vento, dalla tempesta, nessuna voce fuori campo a spiegarci (non ne abbiam bisogno). Il sangue sgorga, quasi in maniera purificatrice, come se il buio del cielo fosse la volta dell’inferno. Dopo che seguiamo per poco i marinai, ed il film s’arena, la nostra visione riprende la via del mare.
Dopo Grierson e De Seta un altro film sperimentale sulla pesca d’altura che restituisce un movimento incessante e brutale che riesce senza alcuna drammaturgia. Lo spettacolo è l’atto anche se quella continua spettacolarizzazione a tratti appare solo un voyeurismo tecnico. Leviathan è un film impossibile da giudicare, difficile ma affascinate, per coloro che vogliono esplorare.
Premi e considerazioni
Così si conclude anche il 65° Festival del film di Locarno, il terzo della gestione di Olivier Père, che ha introdotto nella manifestazione svizzera una dimensione sempre più apolide, come dimostra lo stesso palmares. Cosmopolita ed estremamente qualificata anche la giuria presieduta dal grande cineasta thailandese Apichatpong Weerasethakul, coadiuvato dai registi e sceneggiatori Roger Avary e Im Sang-soo (americano il primo, sudcoreano il secondo), assieme all’attrice e regista francese Noémie Lvovsky e allo svizzero Hans Ulrich Obrist, curatore d’arte, crittico e scrittore.
A vincere il Pardo d’oro è infatti La fille de nulle part, preziosa confessione a cuore aperto di Jean-Claude Brisseau sulla vecchiaia e la solitudine, attraverso il racconto minimalista eppure sperimentale dell’incontro con una misteriosa e giovane musa che risveglia in lui un interesse per la vita ormai sopito. Un premio decisamente doveroso ad un autore che – come scriveva lo stesso Père qualche giorno fa – “non ha più nulla da dimostrare” e può quindi intrattenere e intrattenersi con un piccolo (grandissimo) film che usa il digitale con estrema libertà teorica e formale, facendo respirare il cinema.
Il riconoscimento speciale della giuria va a a un’opera come Somebody Up There Likes Me di Bob Byington, scuola Sundance, film leggiadro e musicale, romanzo di formazione pop denso di riferimenti indie ma allo stesso tempo (a tratti) estremamente profondo. Un film che indica l’attenzione specifica di Olivier Père verso quell’American New Wave, che nell’editoriale conclusivo della manifestazione definisce “uno dei cinema meno conosciuti in Europa e uno dei più bisognosi di aiuto”. Film di cineasti più o meno giovani che non ricevono nessun sussidio statale, autofinanziati, di fronte a cui “gli autori europei supportati da istituzioni regionali o private e dai canali Tv, sembrano quasi dei bambini viziati”. Questa attenzione “ribelle, libera, ricca di immaginazione” dedicata al cinema americano è secondo Père “la dimensione più audace di questa edizione 2012”, che in effetti vanta numerose proposte indie d’oltreoceano, una squadra che avanza compatta e che oltre al premiato Byington ha detto la sua anche con Jack and Diane di Bradley Rust Gray e Starlet di Sean Baker.
Ultimo premiato il cinema asiatico d’impegno civile di Wo Hai You Hua Yao Shuo, titolo internazionale When Night Falls, dramma di una madre che tenta di difendere il figlio dalla pena di morte per aver accoltellato le guardie che l’avevano arrestato per possesso di una bicicletta non immatricolata. Storia di un lutto annunciato che il regista racconta attraverso una dialettica tra spazio e protagonista – An Nai, premiata come miglior attrice – con chiaroscuri quasi espressionisti e che si chiude, sulla stanza del figlio, ormai vuota. Forse il premio per la miglior regia è eccessivo, ma era sicuramente giusto prendere in considerazione questo lavoro. La miglior interpretazione maschile è di Walter Saabel nel claustrofobico e desolato Der Glanz des Tages di Rainer Frimmel e Tizza Covi.
Una menzione è andata infine a uno dei film che più hanno entusiasmato la critica: il portoghese A Última Vez Que Vi Macau di João Rui Guerra da Mata e João Pedro Rodrigues, per cui la giuria ha voluto dare risalto al personaggio della misteriosa Candy, figura che muove la ricerca in soggettiva del protagonista per le strade di una tentacolare Macao e che, restando in fuori campo, richiama alla memoria le donne perdute, sensuali e fragili della tradizione noir. Simbolo inoltre della condizione attuale del cinema portoghese, un piccolo paese con un immensa filmografia alle spalle, totalmente abbandonata da ogni istituzione.
Tra i Cineasti del Presente un altro palmares che rende conto delle varie anime della sezione premiando film molto diversi come Inori di Pedro González-Rubio, che racconta la città di Kannogawa nell’ambito del progetto NARAtive, iniziativa del Nara International Film Festival, su produzione di Naomi Kawase, l’americano Ape, dissacrante patto col diavolo di un comico in crisi, che rispetta appieno i canoni elencati da Olivier Père per il cinema americano indipendente da proteggere e infine, il geniale, Not in Tel Aviv di Nony Geffen, sorta di inno iconoclasta e cinefilo della gioventù israeliana, trascinato dalle splendide musiche di Uzi Ramirez. Menzione infine per il notevole documentario Tectonics di Peter Bo Rappmund, un viaggio per immagini (fisse e mute) a percorrere la linea di frontiera e la topografia circostante dal Golfo del Messico all’Oceano Pacifico, per leggere la conformazione fisica e i dilemmi metafisici della terra di confine tra gli Stati Uniti e il Messico. Il premio come migliore opera prima va a Memories Look at Me della giovane Fang Song; il convulso ritorno a casa di una ragazza dai propri genitori, ntorno a lei, il tempo scorre, i ricordi riaffiorano sul filo delle conversazioni, alcuni a lei noti, alcuni no. Il presente si mescola al passato e i passi verso il futuro potrebbero portare all’eterno oblio.
In mezzo, tante visioni che aprono gli occhi, il cuore e la mente: dalle videocamere di Leviathan, che offrono angolazioni inedite al racconto archetipico dell’insanabile conflitto tra uomo e natura, al giapponese Playback (Sho Miyake) e a Camille Redouble (Noémie Lvovsky), incentrati sulla possibilità di rivivere il passato, o ancora il guatemalteco Polvo (Julio Hernández Cordón), che pone in essere un’interessante disamina della relazione non sempre pacifica tra intervistatore e intervistato; il film-concerto di Bertrand Bonello (per la musa di Fassbinder) Ingrid Caven, musique et voix o l’omaggio al non-sense del dj francese Mr. Oizo-Quentin Dupieux con Wrong. Infine lo splendido cortometraggio Radio-actif di Nathan Hofstetter (vincitore del Concorso Nazionale, Pardi di domani) esperienza di cinema diretto su un ragazzo colpito da compenso psicotico mentre era su un set. Incubi come speranze di visioni.
Ma i due altri lampi che spaccano le visioni in questo festival così polimorfo sono il sottile e magnifico No di Pablo Larrain già premiato alla Quinzaine de le Realisateur, nell’ultimo Festival di Cannes e nettamente il miglior film in Piazza Grande. A chiudere il fantastico Arraianos dello spagnolo Eloy Enciso, un poema visivo in cui gli abitanti di un piccolo villaggio sperduto nei boschi tra la Galizia e il Portogallo recitano la propria vita, frammista a dialoghi tratti da “O bosque” (una pièce dello scrittore galiziano Marinhas del Valle) ed a pensieri confusi sullo stare qui; un immensa e mistica deriva filmica, dolce e allo stesso tempo drammatica, nel ritrarre l’ostinata resistenza di una comunità rurale contro la propria scomparsa.
Aperto ai linguaggi che si fanno sempre più liquidi, osmotici, a mantenere un giusto equilibrio tra divismo e ricerca espressiva, Locarno si conferma uno dei festival più interessanti su territorio europeo, intento a convogliare i fermenti e le tendenze culturali che arrivano da ogni parte del mondo. Lunga vita al Festival di Locarno.