l'impostore

L’impostore – Bart Layton

La ricerca di un soggetto forte in un documentario è in genere il lavoro più difficile e maggiormente apprezzato dal pubblico; la dimostrazione è lampante se si pensa al vincitore dell’Oscar 2013 di categoria: Searching for Sugar Man, un documentario tradizionale e tecnicamente quasi poco degno di nota ma la storia, straordinaria e coinvolgente, valeva davvero la pena di essere raccontata.

L’impostore è soggetto e titolo dell’esordio cinematografico di Bart Layton, protagonista e attore di una vicenda tanto farsesca quanto inquietante. Una famiglia texana sembra aver ritrovato il piccolo Nicholas Barclay, scomparso quattro anni prima all’età di tredici anni, invece accoglie in casa un ragazzo europeo che ha la mania di spacciarsi per ragazzini soli e in difficoltà gettando una luce atroce sulla scomparsa del piccolo Nicholas.

Il documentario girato tramite found footage, interviste e ricostruzioni conserva lo stile televisivo che il regista ha maturato in anni di esperienza, qui unito a un gusto noir e a una chiara affinità verso le detective stories. Il risultato è un continuo oscillare tra realtà e finzione dove, nonostante le dichiarate qualità d’impostore del protagonista, lo spettatore viene indotto al dubbio e alla messa in discussione del racconto perché trascinato nel vortice della menzogna. L’enigmatico protagonista, dichiara: «prima di nascere, avevo decisamente l’identità sbagliata […] ero già preparato a non sapere chi ero davvero» ed è proprio questo l’aspetto più accattivante della narrazione, la partecipazione a una prospettiva già dichiaratamente deviata ma ricca di problematiche comuni come la crisi d’identità, in questo caso dalle chiare caratteristiche patologiche, una personalità camaleontica che si declina nell’assunzione di luoghi, lingue e soprattutto età differenti da quella data. Il ventenne francese Frédéric Bourdin ha la mania di spacciarsi per adolescenti in difficoltà alla ricerca di un’infanzia che a lui è stata negata.

La traccia guida di questo documentario che, passando dal Sundance Film Festival è arrivato a conquistarsi un BAFTA, è molto accattivante considerando l’intreccio di un tema di crisi individuale a quello più marcatamente cronachistico della pedofilia e della violenza sui minori; il risultato rimane però meno convincente da un punto di vista contenutistico e stilistico se si pensa agli esiti che il genere-documentario sta raggiungendo con la riflessione su realtà e finzione, un esempio su tutti: il clamoroso The Act of Killing di Joshua Oppenheimer.

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