La libertà dello s-concerto
Morganti, Frongia e la santa idiozia di Freier Klang
Quando il teatro fa lo sgambetto alla vita è un buon passo per l’uomo. Con Freier Klang – di Claudio Morganti e Rita Frongia (regia e drammaturgia) – ci siamo cascati in pieno.
«Liberi suoni», questa la traduzione letterale del titolo, in libero stato, viene da aggiungere: quello dell’attore che è corpo e strumento del mestiere, di un teatro che rifugge il nozionismo e gode della sua pratica, di una santa idiozia che rende gustosa vita e finzione.
Sergio Licatalosi, Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur entrano nella Sala Auditorium del Castello Pasquini di Castiglioncello per eseguire uno spartito che dia il ‘la’, irriverente, autoironico, sprezzante, a una ricerca sonora che male si sente nel brusio generale e che pure riecheggia.
Un fischietto per richiamare gli uccelli, un theremin, una radio o un cellulare verranno suonati sconcertando noi spettatori: da un lato solleticati dalle vibrazioni che corrono tra verità e artificio, dall’altro barcollanti nel non dubitare di essere a teatro ma di non averne idea. Insomma in bilico tra il sentire noi come gli elefanti nella stanza, mentre la cristalliera è al di là.
In uno spazio povero, con tre aste per microfoni e tre sedie, i tre concertisti danno voce a questo ensemble in cui tutto rischia di fallire, scivolare, spezzarsi, lasciare il tempo che trova. E invece ri-suona e bene. Come marionette sprigionate su un carillon, i tre attori, un po’ clown un po’ guitti, eseguono, storpiano, allungano, modulano, falsano, vibrano, in una parola alterano l’ombra che c’è tra respiro e vuoto.
Ma allora che cosa separa quegli strani supporti fonici da quello vocale di cui il corpo dell’attore si fa mezzo? Che cosa separa il suono dal silenzio?
Licatalosi, Pennacchia e Stetur richiudono tutti gli oggetti nei trolley con cui si erano presentati in scena, mentre questa cambia. Ora solo tre sedie, troppo basse per i loro corpi, l’una accanto all’altra in filo di proscenio; alle loro spalle tre metronomi di cui quasi ci si dimentica ma che battono un tempo debole da riempire sulle pause altrui. Il tempo sta cominciando a finire.
Tre spazi e tre tempi troppo piccoli o troppo grandi, ma per chi visto che il disagio sembriamo più sentirlo noi?
Così ha inizio una conversazione da riaccordare continuamente tra i discorsi di tutti i giorni, di cui non si perde memoria anche se si dimenticano continuamente. I tre attori adesso puntano il dito alla luna e sembrano misurare la distanza dal riflesso di una pozzanghera, ma incrociano noi. L’ironia si increspa e quando l’immagine svanisce, insieme ai loro corpi nel buio, sbattiamo gli occhi e con molta probabilità rinizieremo a fare tanto rumore per nulla.
Sono stati cinquanta minuti di una serissima leggerezza.
Letture consigliate:
• Il tempo sublimato de ‘L’amara sorte’ di Claudio Morganti, di Giulio Sonno
• L’ultima recita dell’attore Vecchiato a Rio Saliceto – Morganti/Bucci, di Manuela Margagliotta
Ascolto consigliato
Inequilibrio, Castello Pasquini, Castiglioncello – 28 giugno 2016