La Polly Jean non ne sbaglia una e questo Let England Shake conferma il grande valore di questa artista. Si rivolge alla sua terra per esprimersi su un tema attuale che va aldilà del singolo paese: la guerra e la civiltà moderna. Non abbandona del tutto le atmosfere di White Chalk ma il disco suona decisamente diverso, più etereo e quasi spensierato.
Prendete ad esempio proprio l'introduttiva title-track: cavalcata scanzonata e folkeggiante con parole pesanti («England’s dancing days are done/ Another day, Bobby, for you to come home/ and tell me indifference won»). Anche The Last Living Rose resta sullo stesso mood, ma a differenza della canzone d’apertura è una dolce ballata (“Goddamn Europeans!/Take me back to beautiful England”). E arriviamo ad uno dei pezzi più belli in cui PJ da una forte scossa con le seguenti parole: «What is the glorious fruit of our land?/ Its fruit is deformed children/ What is the glorious fruit of our land?/ Its fruit is orphaned children». Il suono incalzante, la tromba da marcia e la voce esasperata rendono il tutto ancor più d’impatto.
Ironia macabra (per via del sound quasi scanzonato in contrasto con il signicato del testo) in The Words That Make the Murder che anticipa il miglior pezzo del disco: All and Everyone dal tono solenne e impreziosito da una maliconica tromba. Non è da meno On a Battleship Hill, dove il controcanto della voce maschile ha sicuramente più effetto e rende ancor più vigoroso il pezzo. Il disco resta a livelli altissimi anche con il malinconico folk di England, che ha un'apertura quasi cabarettistica che si trasformerà in urlo straziante rivolto alla sua Terra, che mette in evidenza tutto il suo attaccamento (“I live and die through England”) la sensibilità dell'artista verso lo stato attuale del Paese («It leaves a sadness/ Remedies never were within my reach/ I cannot go on as I am/ Withered vine reaching from the country That I love») e non con poco dolore e sofferenza striglia i suoi conterranei («I have searched for your springs/ But people, they stagnate with time / Like water, like air»).
Le prodigiose capacità vocali della Harvey vengono fuori magnificamente in In the Dark Places («and some of us returned/ and some of us did not»). Il successivo Bitter Brunches è un altro pezzo da 90: tesissima e dalla vena più rock. Decisamente più semplice e dolce in Hanging the Wire, l'artista britannica ci sorprende ancora con l'incursione reggae in Written in the Forehead, brano dalla calma apparente. «The colour of the earth that day/ It was dull and browny red/ The colour of blood, I’d say»: con queste agghiaccianti parole e con l’imponenza e la maestosità di Colour of the earth si chiude questo stupendo disco che aggiunge un altro importante e pesante mattone ad una discografia sinora senza crepe.