A Roma, nella basilica di Sant’Andrea Della Valle, c’è un tavolaccio con uno specchio incassato: guardandoci dentro, oltre ad ammirare la suggestiva cupola del Maderno, non si riesce a schivare il proprio riflesso, che presuntuoso si sovrappone alla grandezza dell’Arte e della Storia.
L’impressione che si ha dopo aver vissuto per oltre due ore nell’Esposizione Universale di Luigi Squarzina – prima messa scena assoluta (il testo è del ’50), per la regia di Piero Maccarinelli – è la medesima: la monumentalità della Storia pare scansarsi per far posto all’umanità, alla splendida banalità della vita che si distende, annullando così l’ombra pesante del tempo.
La scena racconta da sola questa suggestione: i profili marmorizzati dell’EUR si accomodano, come riflessi allungati dall’ombra, sullo sfondo, come si trattasse di uno spettatore che siede alle spalle del palcoscenico. Anche le strutture praticabili, che costituiscono lo spazio dell’azione, restituiscono un riflesso preciso: siamo all’interno delle costruzioni interrotte dalla guerra, lì dove i profughi italiani della seconda metà degli anni quaranta sopravvivono acquartierati in baracche, tra nostalgie di regime e palpiti di una libertà amara, che affascina e spaventa.
Sembra quasi di essere in un «vascio», in uno di quegli agglomerati di speranza avvelenata di cui De Filippo scrisse nella Cantata dei giorni dispari: qui però i bassi fondi napoletani diventano i fantasmi giganteschi dell’EUR, dove un «Colosseo quadrato» si innalza sull’umanità che tenta di ripartire.
L’intreccio, che si dipana con un ritmo tale da non far patire troppo i tempi dilatati dell’affresco epocale, è di gusto neorealista: storie di fame, malattie e giovani amori, che si accavallano alle nuove istanze di ricostruzione e alla cupidigia speculativa che sarà la miccia del «boom economico» degli anni ’50.
La mano di Maccarinelli quasi si mimetizza, scompare dietro la delicatezza delle luci e il dosaggio ponderato delle suggestioni musicali, facendo come da silenzioso direttore a questo coro di attori (ben diciannove, a fianco a Luigi Diberti e Stefano Santospago la maggior parte non supera i trent’anni) che è tanto eterogeneo tanto quanto doveva esserlo il gruppo di vite sospese che abitava i palazzoni dell’E42.
Alla fine, la scena sembra sovrapporsi come un riflesso trasparente alla contemporaneità: profughi, speculazione, crisi e guerra; ma anche palpiti di onestà e amore, intervengono a chiudere il cerchio aperto dal Teatro di Roma con la maratona novembrina Ritratto di una Capitale.
Questa Roma sarà pure mafiosa e corrotta, bella e dannata, fottuta e strafottente, ma forse è solo una città che aspetta una frattura – di quelle che dovrebbero accadere in tempo di «crisi» – che spinga non a ricostruire ma a costruire di nuovo per una nuova EUR: esposizione di umanità che riparte.
Teatro India, Roma – 10 giugno 2015