Les Misérables
Un film che traspone in chiave moderna, nelle banlieue parigine, il romanzo di Victor Hugo, gettando luce su una convivenza problematica.
Les Misérables, regia di Ladji Ly, ci porta nelle banlieue parigine del 2018, anno in cui la nazionale francese vinse i mondiali di calcio. Seppur il film non tratti di calcio, è bene partire dalla sua nazionale. Essa è composta per lo più da giocatori di nazionalità francese di seconda o terza generazione. Non sorprende dunque che quando si assiste ad una partita della nazionale vengano esposte molte delle bandiere delle ex colonie, paesi di origine dei più importanti beniamini dei Bleu. Beniamini adorati dal popolo francese tutto, ma in particolar modo, da quella parte di popolazione che tra tutte protegge e si protegge seguendo uno stile di vita che nasce a chilometri di distanza. Non è infatti strano vedere a Parigi, come in altre città francesi, quanto questa unione tra il così chiamato vecchio continente e le influenze nord africane trovino un interessantissimo melting pot di usi e culture. Una quotidianità fatta di parole francesi intervallate da modi di dire arabi. Un’unione molto interessante ma che spaventa i più perché rilegata in sé stessa e non sempre accettata di buon grado. Un modo di proteggere il proprio presente e le proprie radici che molto spesso, complice la povertà e situazioni sociali difficili, trovano il massimo della propria espressione nelle zone periferiche della città: le banlieue di Parigi.
Les Misérables richiama l’omonimo testo di Victor Hugo, trasportandone le idee e i temi in chiave moderna. Ambientato nella citè di Montfermeil, dove nel 1862 il romanziere, poeta ma anche saggista antropologo e difensore dei diritti umani, diede vita ai personaggi del celebre libro. Il luogo è senz’altro mutato moltissimo negli anni, se dapprima si trattava molto probabilmente di un contesto rurale dove lo scrittore cercava pace per scrivere lontano dalla città, ora lo spazio è urbanizzato e ospita molte delle più problematiche e controverse questioni sociali francesi: il divario tra la città e le banlieue. Una lontananza minima se presa geograficamente ma infinita in chiave sociale e civica, una divisione che nessun ReR può colmare. Così chi vive nella cité può anche non uscirne mai, in tutti i sensi.
La trama segue le vicende investigative di un gruppo di poliziotti del reparto speciale che si occupa di operare tra i blocchi di questa cittadella-ghetto nella quale non sono molti anni che la polizia può mettere piede. Nonostante lo Stato cerchi di far sentire la propria presenza, non tutto avviene senza difficoltà. Lo spettro delle rivolte del 2015 è sempre dietro l’angolo e la stretta sull’estremismo islamico una faccenda delicata. Sono luoghi difficili. Già Mathieu Kassovitz con La Haine (1995) è riuscito a mostrarci quanto questa convivenza sia problematica e discutibile nei modi da entrambe le parti. La paura si tramuta in rabbia, la rabbia genera odio. Una catena che anello su anello si districa da generazioni creando un divario tra la società delle banlieue e le istituzioni centrali. Lo Stato non c’è se non ti può garantire giustizia. La giustizia è soggettiva quando per far sì che venga applicata è regolata da sé stessa.
Ragazzi e ragazze privati della possibilità di essere bambini. Incastrati tra esempi sbagliati e schiaffeggiati da quelli socialmente ritenuti giusti. La confusione però lascia presto spazio all’istinto di sopravvivenza. In questa storia drammatica non mancheranno i cattivi esempi e i momenti in cui si vedranno futuri spezzati per sempre, o forse no. Cowboy e indiani tra i palazzi popolari che, lungi dal giocare, fanno sul serio. Un drone, occhio che tutto vede, ma che in questo caso racchiude in una piccola sd la testimonianza tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Un film che finisce lasciandoti con una azzeccata massima di Victor Hugo: “non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori”.