LeonardCohen

Leonard Cohen, l’ultima eleganza

Si è spento all'’età di 82 anni un altro pezzo di storia della musica

Che questo non fosse un anno come gli altri lo avevamo intuito già da un bel po' di tempo, ma l'impressione è che il destino si stia accanendo oltremodo. Si è spento all'età di 82 anni un altro pezzo di storia della cultura mondiale, uno dei pochi musicisti capaci di anteporre la propria poesia alle pur sublimi note musicali. Perché questo era fondamentalmente Leonard Cohen: un poeta prestato alla musica con l'innato talento, comune a uno scrittore del calibro di Louis-Ferdinand Céline, di rendere raffinati gli umori più candidi così come le più cupe debolezze dell'animo umano.

Ieri, dunque, abbiamo vissuto l'ennesimo brusco risveglio di un 2016 da dimenticare in fretta. Per fortuna, se di fortuna si può parlare in questi casi, come accaduto per David Bowie l'artista canadese è riuscito a lasciarci il suo testamento – You Want It Darker – ultimo album e brano in cui possiamo udire le malinconiche e consapevoli parole «Hineni, hineni/I’m ready, my Lord» (“Eccomi, eccomi/sono pronto mio Signore”, ndr). Un'uscita di scena indelebile. Versi che ascoltati oggi assumo i connotati di una consegna verso un destino che andava per consumarsi e che, considerando gli ultimi tre spettrali capitoli della sua discografia, mai era apparso così imminente.

Nato a Montréal da una famiglia ebraica immigrata in Canada, Cohen si appassiona sin da subito alla poesia scrivendo e pubblicando versi e romanzi. Il modo di interpretare i suoi brani – quasi recitati più che cantati – e la sua impostazione musicale subisce una notevole influenza proprio dai reading delle sue opere che tiene a partire dagli anni accademici.

Si dedica propriamente alla musica, invece, tardivamente e a modo suo, quando aveva ormai passato i trent'anni con la pubblicazione di Songs of Leonard Cohen (1967). In quegli anni la musica d'autore stava prendendo una direzione differente dall'abituale, con l'emergere sempre più prepotente delle canzoni di protesta e l'apertura da parte di Bob Dylan, il suo membro eponimo, verso un'elettrificazione del suono. Al contrario, il memorabile debutto del songwriter canadese avviene tra ballate romantiche e intimiste, voci, arpeggi, vecchi valzer e l'impeto di una poesia a tratti commovente. Winter Lady, So Long Marianne, Sisters of Mercy, Stories of the Street, sono solo alcuni dei brani presenti nel suo disco d’esordio che rimangono impressi indelebilmente nelle menti degli ascoltatori, ieri come oggi. Tra queste gemme senza tempo non possiamo non citare Suzanne, struggente ballata composta dopo un incontro con Suzanne Verdal, moglie dello scultore canadese Armand Vaillancourt. Ascoltando questa canzone ritroviamo una dei fini che hanno caratterizzato la sua musica: far rivivere un evento importante della propria esistenza per una seconda volta.

Una prerogativa evidenziata in Chelsea Hotel #2 (1973), dove il numero due, per confessione dello stesso Cohen, corrisponde alla volontà di ricalcare il vissuto. Posto affascinante il Chelsea Hotel, albergo naïf newyorkese in cui hanno soggiornato per lunghi periodi artisti come Bob Dylan, Marilyn Monroe, Arthur Miller, Grace Jones e in cui Sid Vicious uccise Nancy Spungen, la sua fidanzata. Qui avvenne anche l'incontro terminato in camera da letto tra Leonard e Janis Joplin. E il suo brano è a tutti gli effetti una descrizione cruda e passionale di due anime ossessionate dalla bellezza estetica, ma che, in fondo, tanto belle non lo erano. Ma poco importa perché «we are ugly but we have the music» (“siamo brutti ma abbiamo la musica”, ndr). Una strofa divenuta leggendaria. Come si può facilmente evincere dagli ultimi due titoli citati, Cohen amava molto le donne e non lo ha mai nascosto. D'altronde il suo fascino da seduttore non è mai svanito col tempo. Prendiamo a titolo esemplificativo una canzone seducente e seduttiva come I’m Your Man (1988): sfidiamo chiunque a presentarsi sul palco a ottanta anni suonati e a rendere credibile un testo del genere. Chapeau, Mr. Cohen.

Non possiamo non concludere questa carrellata – assolutamente non esaustiva – con uno dei brani più conosciuti del suo repertorio: Hallelujah (1984). Un successo sancito dalle tante, troppe cover che abbiamo visto susseguirsi nel corso degli anni, tra le quali è impossibile non citare quella di John Cale del 1991 e, ovviamente, di Jeff Buckley del 1994. Più di ottanta strofe che spaziano dai riferimenti all'Antico Testamento a delusioni amorose e vita vissuta; una sintesi perfetta di estasi sessuale e devozione religiosa, sacro e profano. Si parte dunque dalla Bibbia per finire a un inno all’amore e al sesso, una costante nella sua carriera che in questo brano rende ancor più inequivocabile la smisurata dote di Cohen nell’amalgamare e rendere organici elementi e tematiche senza apparenti affinità.

Come ricorderemo, dunque, Leonard Cohen? Potremmo rievocarlo come il “poeta minore”, il bohémien, l’anti-star, il cavaliere errante, l'ebreo mistico, il seduttore. O ancora, potremmo ricordarlo con il suo cappello, il suo abito elegante, la sua voce sensuale resa sempre più roca dalle mille sigarette, il suo tenere ben saldo tra le mani il microfono mentre racconta storie di bottiglie vuote, sigarette posate su un posacenere, di camere da letto prima piene e il momento successivo vuote, di impermeabili blu. Ma forse la migliore descrizione di se stesso, ancora una volta, ce l'ha fornita lui:
«Come un uccello sul filo, come un ubriaco in un coro di mezzanotte, ho cercato a modo mio di essere libero».
Già, come dargli torto.
Addio, Leonard.

Grazie


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