Al Teatro di Roma il vuoto delle ideologie
Va in scena il 'Lear' di Edward Bond
Una città presidiata da militari in tutte le stazioni metro. Non è uno spettacolo teatrale ma la realtà romana alla vigilia dell’apertura del primo Giubileo “blindato”. Ed è proprio nella città più insicura e monitorata di questi giorni, dove l’accoglienza si mischia a una paura angosciante del nemico invisibile, che va in scena Lear di Edward Bond, riscrittura shakespeariana del 1971 più che mai attuale, poiché porta sul palco una riflessione tutta contemporanea sul Potere a partire da quella cortina di ferro che solo apparentemente infranta è pronta a rigenerarsi pericolosamente in altre forme e in altri luoghi. Finché ci saranno nemici da abbattere, d’altronde, ci saranno sempre muri da erigere.
Edward Bond, uno dei drammaturghi inglesi viventi più importanti e controversi, è fautore di un teatro politico che non solo riflette la realtà ma che si propone altresì come possibile strumento di cambiamento della società. Mostrando sul palco la violenza congenita agli esseri umani, Bond mira a recuperare l’umanità perduta e scuotere le coscienze. Per questo, predilige scenografie scarne e un’analisi dei fatti più distaccata e critica, lontana dal coinvolgimento emotivo. È proprio in questo solco che si inserisce il Lear prodotto dal Teatro di Roma (in co-produzione con lacasadargilla).
Da un buio denso, luci intermittenti lasciano intravedere sul palco del Teatro India i resti di una reggia (scene Luca Brinchi, Fabiana Di Marco, Daniele Spanò) ormai in sfacelo: Lear (Danilo Nigrelli) è qui un sovrano tirannico e crudele, ossessionato dalla costruzione di un muro da erigere contro i nemici dello Stato. Il re non capisce però che il primo muro da abbattere è piuttosto quello dell’incomunicabilità fra le generazioni; così, non appena le figlie Bodice (Pilar Peréz Aspa) e Fontanelle (Alice Palazzi), sovvertono il potere, inizia per lui un viaggio di redenzione che lo porterà fino a casa di Cordelia (Anna Mallamaci): non più sua figlia ma una ribelle che vive isolata da tutto, riparata a sua volta dietro un muro innalzato a difesa dai pericoli esterni.
Come se fossero in un incubo a cielo aperto, gli attori vestiti di nero si muovono in un susseguirsi di intrighi reali e visioni oniriche. In questo spazio che si trasforma ora in reggia, ora in bosco, ora in luogo dell’inconscio, esplode la parola cruda scarna ma densa di Bond, capace di dar vita a un sentimento diffuso di paura irrazionale e incontrollabile che non trova altro sfogo se non nel suo prolungamento naturale: la violenza.
Lisa Ferlazzo Natoli firma una regia dall’impatto spettacolare, emotivamente e visivamente suggestiva (grazie anche all’impeccabile disegno luci e suoni di Alessandro Ferroni e Umberto Fiore), ma che, seppur omogenea e di pregio, probabilmente non offre il giusto distacco (caratteristico di Bond, per l’appunto) per analizzare la storia da un punto di vista più “critico”.
In fondo, si costruiscono muri per sfuggire alla paura dell’Altro e rimanere trincerati nelle proprie convinzioni: non importa se alla fine Lear vorrà infrangere quel muro, perché ci sarà sempre qualcun altro pronto a ricostruirlo; come Cordelia, che rovescerà il potere ancora una volta per diventare una spietata dittatrice di stampo stalinista. Insomma, i personaggi della Storia cambiano, ma la Storia si ripete sempre uguale. Così, attraverso Lear, Bond ci mostra che dietro le etichette delle varie ideologie si annida soltanto la medesima volontà di mantenere il Potere. Il problema allora non è abbattere un muro ma l’idea stessa, di muro.
Non abbiamo bisogno di un piano per il futuro, abbiamo bisogno di un metodo per cambiare.
Ascolto consigliato
Teatro India, Roma – 8 dicembre 2015