The Railway Man, “L’uomo della ferrovia”: la storia vera della cosiddetta ferrovia della morte, ovvero il collegamento tra Birmania e Thailandia la cui costruzione fu affidata ai prigionieri militari e politici di un gulag giapponese; il suo costo, date le condizioni di lavoro inumane e la durezza dei secondini, fu pagato soprattutto in vite umane. Eric Lomax (Colin Firth), soldato britannico, è uno dei pochi uomini sopravvissuti alla barbarie in questione. La storia ha inizio al circolo dei veterani quando la guerra è ormai finita da parecchi anni. Eric Lomax è un uomo lacerato dal ricordo della prigionia e delle torture subite; l’incontro casuale con Patricia Wallace (Nicole Kidman) rappresenta il punto di svolta del suo dramma interiore: prima il matrimonio, poi la possibilità di vendicarsi con Takashi Nagase, il giovane ufficiale giapponese che l’aveva seviziato e che Eric scopre essere ancora vivo.
Tutta la prima parte del film si presenta come un’attenta e meticolosa analisi psicologica dell’Eric Lomax veterano, con scene intense e primi piani soffocanti, in cui lo sguardo di Colin Firth vale più di ogni parola. L’ingresso nel cuore della storia, ovvero la possibilità per Lomax di vendicarsi, è delicato e graduale, accompagnato dalle mille sfumature che compongono la condizione di tortura psicologica nella quale il protagonista si trova, inerme. Anche il personaggio della Kidman è ben piantato e definito, quasi materno.
Se non fosse stato subito chiaro che il racconto era una storia vera, si sarebbe fatto fatica a credere alle azioni e all’umanità dei personaggi, così estreme da risultare incredibili. Ovviamente il confine tra film e storia vera è sempre molto precario, ma qui si parla di qualcos’altro: incredibile è la forza con la quale un uomo decide di ritornare sul luogo che è stato ed è ancora il fulcro del suo tormento; incredibile è il suo atteggiamento davanti a chi l’aveva torturato fino quasi ad ucciderlo.
Durante le ultime scene del film, la cui unica pecca è di essere forse un po’ troppo frettolose, viene spontaneo domandarsi quali siano le due vie del destino (per quanto i traduttori italiani, ancora una volta, si siano impropriamente permessi di inventare un titolo del quale nella versione in lingua originale non c’è nemmeno l’ombra). Queste due vie, questo bivio davanti al quale Colin Firth si trova, sono una quella della vendetta e della resa, l’altra quella del perdono e della possibilità di riacquistare la dignità perduta da tempo.
Le due vie del destino è un film forte e calibrato che si basa su una storia ben strutturata e sulla performance di due attori come Firth e la Kidman, credibili, sofferenti, perfetti.