In sala l’aria è tesa, frizzante. Si respira la voglia di riscatto del cinema italiano contemporaneo attraverso i nuovi talenti nostrani. Sono dunque alte le aspettative per Last Summer di Leonardo Guerra Seràgnoli che concorre per la sezione Prospettive Italia. Il giovane regista romano unisce un cast internazionale e racconta di una madre venuta dal Giappone per trascorrere quattro giorni con il figlio Ken (che il piccolo esordiente Ken Brady rende sorprendente amalgama di dolcezza istintiva, malinconica riservatezza e delicata euforia), prima che venga affidato esclusivamente alla statunitense e benestante famiglia all’ex marito.
Una storia potenzialmente coinvolgente e appassionante ambientata su un lussuoso yacht ormeggiato a largo di Otranto e sorvegliato dal personale di bordo. Un microcosmo immobile e asettico, estraneo al tempo e allo spazio della realtà, che imprigiona Naomi (Rinko Kikuchi, precisa incarnazione del sacrificio di una donna che soffoca i propri impulsi materni nella freddezza e nel distacco) e che poteva scatenare un senso di angosciante costrizione e claustrofobica rassegnazione – degna del buñueliano Angelo sterminatore mista alla antonioniana ricerca perpetua di sé, ma che invece rischia di trasformarsi in una prolungata attesa nella quale, minuto dopo minuto, l’eccitazione lascia il posto all’apatia.
La causa principale di questo declino non è imputabile né alla regia, che riesce a infondere l’emozione intima e silenziosa della solitudine di Naomi in un’atmosfera sospesa e dilatata, unendo corpi e ambienti, spesso ritagliati in dettagli, attraverso morbidi movimenti; né alla fotografia, che nitida e pulita, enfatizza la monotona perfezione di una vita agiata, né al montaggio, che dona alla soavità delle inquadrature uno scatto ritmico, energico (quasi da thriller movie). Resta la sceneggiatura, che Guerra Seràgnoli scrive con l’autore di graphic novel Igort e la scrittrice nipponica Banana Yoshimoto. È infatti l’eccesivo ridondante trattenimento della storia che fa implodere il film: ogni personaggio diventa meccanico simulacro di se stesso (i quattro dell’equipaggio – Yorick Van Wageningen, Lucy Griffiths, Laura Sofia Bach, Daniel Ball che, tranne qualche flirt e dissapore, non evolvono mai dal loro stato di ubbidienti automi) e ogni accenno di progressione si perde poco per volta nell’insistenza descrittiva di luoghi e psicologie che sfumano in una pletorica autocelebrazione, lasciando negli occhi dello spettatore l’amara consapevolezza di un’importante occasione andata sprecata.