La verità negata
Il cinema contemporaneo di fronte alla memoria dell'Olocausto
L’abnegazione, nell’accezione cristiana, è l’assoluta rinuncia ad ogni forma di egoismo per ottenere l’amore di Dio; per estensione, la dedizione totale ai propri doveri al fine di fare il bene altrui. Sviscerando questo concetto in un caffè di Londra tra un avvocato e un’insegnante, la più importante lotta per la memoria dell’Olocausto prenderà la strada verso la verità.
Chi conduce questa battaglia è Deborah Lipstadt (Rachel Weisz), docente e scrittrice ebrea che ha dedicato la propria carriera letteraria alla lotta al negazionismo, ossia il pensiero di chi nega la persecuzione e il massacro degli ebrei da parte dei nazisti. Alla fine degli anni Novanta lo storico David Irving (Timothy Spall), grande esperto dell’argomento e paladino negazionista, denuncia la Lipstadt per diffamazione dopo essere stato accusato di falsità. La scrittrice ingaggia quindi i migliori avvocati del Regno Unito per confutare la tesi negazionista una volta per tutte. Dopo una dolorosa ricerca di prove ad Auschwitz, il team prepara una difesa basandosi su presunte incongruenze, imprecisioni e contraddizioni presenti nei suoi scritti e sulla sua intolleranza razziale.
L’eco dell’Olocausto nella cinematografia attuale risuona anche alla Festa del Cinema di Roma, dove è stato presentato La verità negata (Denial), ulteriore straordinaria esplorazione delle sue conseguenze. Ennesimo tentacolo di questa terribile piovra è la (rin)negazione di ciò che avvenne: Irving ricostruisce a puntino la storia a favore della propria tesi, incoraggiato dall’odio e dall’intolleranza, appoggiato dalla mancanza di prove certe poiché distrutte dai nazisti; freddo ma psicologicamente brillante, trasforma i segni della vergogna in prove della cospirazione ebraica, umiliando chi ha già sofferto.
Dall’altra parte, l’abnegazione è il prezzo che Deborah paga per vincere, seguendo il consiglio del suo avvocato: lei incarna la coscienziosità e l’azione immediata ed istintiva, che si tradurrebbe nello scendere in campo e unire la propria voce a quella dei superstiti. Ciononostante, si vede costretta a tacere per lasciare spazio ad una strategia legale atta a mettere in ginocchio a poco a poco l’avversario. Denial è la storia di queste due forze in lotta, perché significa negazione: dell’Olocausto (per imporre la propria ideologia) e di se stessi (per riscattare il popolo ebraico).
La brillante sceneggiatura di David Hare dà anche un fugace sguardo alla vita privata di David Irving, che appare molto devoto alla famiglia e in particolare alla sua nipotina, accentuando il contrasto con le sue credenze e quindi la complessità psicologica. Tema questo approfondito nel precedente The Reader, diretto da Stephen Daldry. L’amore impossibile tra il giovanissimo Michael e Hanna, donna enigmatica ed introversa, sboccia, cresce e muore prima che il passato di lei si manifesti; tempo dopo, la notizia della sua passata collaborazione con le SS è comunque uno shock. La personalità di Hanna è, come per Irving, scissa fra le atrocità compiute e il resto della propria vita. Tuttavia, se per lo storico inglese vi è convinzione e perseveranza nella negazione, Hanna sceglie di negare nel proprio intimo le azioni passate per giustificarsi per qualcosa che è stata costretta a fare, o forse solo per trovare una ragione per andare avanti.
Una diversa negazione di sé è riscontrabile nell’intenso Remember di Atom Egoyan, visto alla 72esima Mostra del Cinema di Venezia. L’anziano ebreo Zev alloggia presso una casa di riposo ed è un uomo placido e sereno. Un giorno, incitato da un amico, decide di mettersi alla ricerca di un capo SS responsabile dell’omicidio della famiglia sua e dell’amico. Zev nega la propria identità in un triplice senso: da un lato egli soffre di demenza senile e ogni giorno fatica a ricordare chi è; dall’altro lato, soprattutto, a questa missione egli mette la sua massima dedizione, al punto di non preoccuparsi minimamente del figlio che lo cerca o di uccidere senza esitazione un nazista per legittima difesa. Nel concreto, nega la propria personalità diventando altro da ciò che in realtà è, al fine di perseguire il proprio scopo.
La stessa missione la intraprende la ex rockstar Cheyenne in This Must Be the Place di Paolo Sorrentino, non un thriller ma un road movie raccontato con il linguaggio simbolico ed ermetico cui il regista napoletano ci ha abituati. Qui, la negazione che investe il personaggio non è all’inizio della sua avventura ma alla fine, ed è totale: la vendetta nei confronti del capo nazista non lo trasforma in un assassino, bensì fa in modo che egli neghi per sempre la sua attuale personalità, diventando un uomo nuovo, positivo e adulto.
Una forma trasversale di negazione si riscontra nell’efficace esperimento del regista polacco Sergei Loznitsa, Austerlitz, presentato al 73esima Mostra del Cinema di Venezia. Il film è una serie di riprese fisse a dei turisti in visita ai campi di concentramento a Dachau, che mostra in tanti atteggiamenti (selfie davanti all’insegna Arbeit macht frei, pasti consumati nei luoghi delle sofferenze, farsi fotografare alla gogna che fu sede di tante esecuzioni, ecc.) un mancato rispetto e consapevolezza di dove ci si trova. La negazione è qui silenziosa e inconscia: si visita il teatro della tragedia per conoscere i fatti, ma senza rendersi conto della gravità delle circostanze. Forse ciò che viene negato in questo caso non sono i fatti, ma quello che dovrebbe essere il vero motivo della visita, ossia l’arricchimento personale e la coltivazione della memoria storica, in favore di una mera condivisione dell’esperienza, nell’accezione dell’attuale era social/digitale.
Da questo breve excursus si evince che l’elaborazione del trauma dell’Olocausto, ad oggi non ancora compiuta, esige una forma di negazione da parte di chi la affronta. Ciò che viene negato, volontariamente o meno, riguarda l’identità o lo sguardo sul mondo, requisito evidentemente necessario per ritornare su quei fatti. Ogni persona(ggio) affronta la cosa a proprio modo, ma il rispetto rimane imprescindibile.