La trappola del teatro
Latini, i Giganti e la Paura di essere solamente uomini
Ma perché Roberto Latini non ha gettato via il microfono? Perché non ha urlato il Silenzio? Perché alla fine ha vinto il teatro?
Avete paura, e vorreste farne?
I Giganti della Montagna. Così Cotrone ai suoi spiriti mentre le fila sparute della compagnia di Ilse salgono su verso la Villa della Scalogna, in quest’isola imprecisata, ultima spiaggia della letteratura pirandelliana—e non solo. Molto ne è stato detto e scritto e rappresentato, ma cosa sono I giganti della Montagna? E perché, al di là di qualunque inquadramento storiografico-culturale, quest’ultima pièce incompiuta del drammaturgo siciliano è così importante? Forse perché giace al capolinea, in quella stazione di frontiera del vivere umano – ben diversa dalla morte – innanzi alla quale ogni maschera, parola, pensiero crolla. È come se dopo anni e anni di trappole famigliari, sociali, psicologiche quel nichilista anarchico affamato d’amore che in fondo era Pirandello avesse detto basta: vediamo cosa accade nell’anticamera dell’apocalisse, quando ormai non rimane più alcuna apparenza da difendere.
DOCCIA Non si può aver tutto, se non quando non si ha più niente.
CROMO (al Conte) Ah, senti? Quest’è proprio il caso nostro! Dunque noi abbiamo tutto?
COTRONE Eh, no, perché vorreste avere ancora qualche cosa. Quando davvero non vorrete avere più niente allora sì.
Ed ecco che Roberto Latini parte proprio da questa ambiguità del vuoto per la sua versione definitiva e integrale dei Giganti (clicca qui per la recensione del I atto con Federica Fracassi). «Immaginazione!»: lettere bianche sul fondo buio di un velatino che in proscenio traccia già una distanza capitale; perché a teatro bisogna andare oltre l’apparenza, certo, ma anche perché questa rilettura tutta personale e individuale si scontrerà col peso della parola, con la gravità dell’illusione, e allora un muro è necessario. Ma – e questo forse segna l’intera operazione di Latini – come confrontarsi con quel muro? E per cosa? Per andare oltre? Per imparare ad esporsi sfondando finalmente la distanza (esistenziale e struggente per i veri artisti di teatro) fra palco e platea? O per scoprire che, in fondo, al di là non c’è nulla?
Con la divina prerogativa dei fanciulli che prendono sul serio i loro giuochi, la maraviglia ch’è in noi la rovesciamo sulle cose con cui giochiamo, e ce ne lasciamo incantare. Non è più un gioco, ma una realtà maravigliosa in cui viviamo, alienati da tutto, fino agli eccessi della demenza.
Non è un caso infatti che la parola chiave dello spettacolo sia paura. Latini decide di giocare per frammentazione. Tutto si scompone e tenta il suo balzo dal buio, ma sempre con estrema fragilità: le bolle di sapone scolpite dalle luci di Max Mugnai, ad esempio, sono investite dal verde davanti, dal blu al centro, dal rosso nel fondo nascosto della loro ombra invisibile, in una tripartizione elementare e raffinata di quella luce stessa che non può proprio venire a illuminare perché – di nuovo – la verità non solo non può ma non deve esistere, altrimenti come si potrebbe vivere coscientemente l‘illusione?
Ah, lei sarebbe “curioso»? Ma sa, non si vedono per “curiosità” questi miracoli. Bisogna crederci, amico mio, come ci credono i bambini.
Così, alla maniera dei bambini, la messa in scena di Fortebraccio Teatro si trasforma in un continuo, timido, gravissimo “Guardami guardami! Non guardarmi!”. La discoteca di fulmini e spiriti, il pensatore nudo nel campo di spighe dorate, il monatto-marionetta nella nebbia della morte apparente: da questi e altri scenari la presenza inquieta e infestante di Latini, attorniata da microfoni maschere e veli, lascia affiorare dialoghi e stralci dell’opera pirandelliana; eppure la narrazione sonora ora cupa, ora bambinesca, ora fastosa, ora perturbante dispiegata dal compositore Gianluca Misiti (valsagli il Premio Ubu) porta ogni volta, ancora una volta, un poco altrove: puntualmente, pur nella sospensione apparente, la scena cresce, monta, assedia, comprime quel silenzio larvale («la vita», forse) che tenta il volo oltre la scena («le parole, il logos») e lo rifagocita nel dramma stesso del fare teatro.
Scherzato? Lei ha obbedito! Le maschere non si scelgono a caso. Ed ecco altre prove, altre prove.
Così, infine, stremato nella devozione (all’arte), Latini sale su un alto trampolino, che supera finalmente la linea di sicurezza del proscenio, per esporsi ai giganti (nemesi delle idee e di qualunque idealismo): e come la contessa Ilse – nel probabile finale immaginato da Pirandello – ne rimarrà divorato. Ma al di là della citazione del Cristo morto di Mantegna, e delle molte altre (spaziando da Rodin a Bene, e ancora), qui c’è un punto veramente dolente: che la struttura da cui svetta il trampolino continua a rimanere salda al di qua del palco. Cauta, troppo cauta.
Nella ricchissima ambiguità di vuoto che dispiega per circa due ore di incanti, pur giocando «maravigliosamente» con le metafore della condizione teatrale e umana (perche il teatro è anticamera della vita), Latini non sembra riuscire a diventare Cotrone: la lotta con la parola è persa, ma perfino oltre la propria poetica. Alla fine vince il teatro, alla fine vince la paura.
Latini non si destituisce mai. Se da un lato, infatti, Cotrone afferma:
Mi sono dimesso. Dimesso da tutto: decoro, onore, dignità, virtù, cose tutte che le bestie, per grazia di Dio, ignorano nella loro beata innocenza. Liberata da tutti questi impacci, ecco che l’anima ci resta grande come l’aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci solleva e disperde in favolose lontananze.
egli invece non riesce a dimettersi – facendolo – dal fare teatro. Non che debba, certo, ma per sensibilità, talento e coraggio è forse uno dei pochissimi in Italia che ne sarebbe in grado. Qualcosa lo trattiene nel teatro. Pur con la sua preziosissima paura.
Ma getterà via un giorno il microfono? Verrà l’uomo?
Ascolto consigliato
Teatro India, Roma – 17 febbraio 2016
In apertura: Foto di scena ©Simone Cecchetti