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La transavanguardia italiana

Quella sulla transavanguardia italiana è un’interessante mostra ospitata al Palazzo Reale di Milano. Era previsto che terminasse domenica 4 marzo, ma il suo grande successo ha fatto sì che venisse prolungata fino al 22 aprile.

I cinque artisti esposti fanno parte di un movimento che vuole attingere dal materialismo delle avanguardie novecentesche per poi superarlo e recuperare il gusto della pittura e del processo creativo, ricercando la comunicazione con il mondo circostante in modo armonioso ma non diretto e lineare. Nasce negli anni Ottanta e i contributi degli anni precedenti sono spesso molto evidenti, come per esempio la riduzione dell’immagine agli elementi essenziali e l’utilizzo di colori forti e d’impatto. La ricerca del contatto con le tradizioni primordiali è testimoniata anche dai numerosi esperimenti a livello tecnico e dall’uso di diversi materiali applicati alle tele.

La prima sala del percorso è dedicata interamente ai pannelli introduttivi, si entra poi nel vivo della mostra con le sale dedicate ai vari artisti.

Nicola De Maria: la sintesi in questo pittore è assoluta, i colori sono molto forti e dominano il rosso, il blu e il verde; le linee del suo “Gialla canzone del mare” portano subito alla mente quelle di Kandinsky nella “Dolce salita”.

Francesco Clemente: è chiaramente uno degli esponenti della transavanguardia più vicini in assoluto al neoespressionismo, dominano infatti i colori cupi ed una visione drammatica della vita.

Sandro Chia: anche qui l’esplosione dei colori è evidente ma a differenza di De Maria l’impatto è meno forte, forse anche per via del fatto che i soggetti sono molto meno astratti. Il tributo futurista è piuttosto evidente, specialmente in “Due pittori al lavoro”.

Mimmo Paladino: la sua caratteristica è il superamento della bidimensionalità pittorica grazie all’utilizzo di materiali plastici e oggetti di recupero; l’esempio più lampante di questo stile si ha con l’ “Affurtunato”.

Enzo Cucchi: l’ultima parte del percorso porta a scoprire un’arte più delicata, con colori tenui e linee gentili. Degno di nota è l’utilizzo massiccio della carta fotografica applicata alla tela, una tecnica pittorica decisamente particolare. Molto interessante è “Fare un quadro”, il cui supporto è bucato.

Nonostante gli stili differenti e le diverse tematiche affrontate, una caratteristica che unisce tutti e cinque gli artisti è chiaramente quella dell’amore per la sperimentazione, sia per quanto riguarda la tecnica mista, sia per l’utilizzo dei supporti più diversi (tela, lino, carta fotografica). Un altro elemento comune è costituito dalle grandi dimensioni delle opere: si tratta certamente di una scelta legata anche alla loro ricerca di comunione con il mondo e di integrazione dell’opera d’arte con l’ambiente circostante.

C’è anche una sala video in cui è possibile ascoltare la voce del curatore Achille Bonito Oliva e degli artisti. Si tratta sicuramente di un contributo importante, ma che va a sommarsi ai numerosi pannelli informativi situati all’ingresso e lungo tutto il percorso, provocando forse un eccesso di parole pompose e autoreferenziali che confonde il fruitore della mostra. Oltre a questo c’è poi da considerare che la grafica dei pannelli lascia molto a desiderare dati i caratteri decisamente piccoli, gli errori di battitura, la lunghezza spropositata dei testi, e l’inefficacia didattica degli stessi. In alcuni casi addirittura sono stati notati imperdonabili errori di accostamento tra i cartellini descrittivi e le opere esposte.

Si può quindi dire che l’esposizione è molto ricca a livello contenutistico, le opere esposte sono interessanti e offrono diversi spunti di riflessione e studio. Dal punto di vista didattico è però eccessivamente autoreferenziale e non molto chiara ad occhi inesperti e, considerando che si tratta di un movimento artistico decisamente poco conosciuto, forse sarebbe stato più efficace puntare più sulla chiarezza che sulla retorica.


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