La trasposizione di una vita vissuta realmente sullo schermo cinematografico non è mai un'operazione troppo facile e scontata. Eroi, soldati, geni, scienziati: vite di successo, storie personali che devono essere di pubblico dominio un po' per fare da esempio a noi altri esseri comuni, un po' per assolvere quella funzione catartica che il cinema, tra i pochi strumenti in grado di assolvere a questo compito, è ancora oggi in grado di assumere. Quando ci si ritrova davanti a una vita straordinariamente potente come quella avuta dallo scienziato fisico e astrofisico Stephen Hawking non si può che ben sperare, ancora una volta, nella possibile salvezza di un genere umano che troppo spesso meriterebbe di essere condannato alla dantesca dannazione eterna per come ha deciso di gestire la propria organizzazione. Le storie reali in grado (si suppone) di svolgere tale funzioni popolano le sale cinematografiche proprio in questi giorni: un bagno caldo nella realtà attraverso American Sniper, Big Eyes, The Imitation Game, Unbroken e così via.
Si inserisce così in questo filone di produzioni anche La teoria del tutto, film (in parte) biografico su Hawking appunto, una delle icone del secolo XX e non solo dal punto di vista scientifico. Nel suo campo d'azione, lo scienziato Hawking ha agito quasi come un artista, lottando costantemente (tutt'ora lo fa) con la sua più grande ferita, l'infinito, ma il centro del film è un altro, poiché questo è costituito dalla biografia della di lui ex compagna, Jane Hawking, Verso l'Infinito. Il suo intento maniacale, e forse anche romanticamente superomistico, di trovare una semplice ed elegante formula per spiegare il tutto dell'universo cozza con la malattia del moto-neurone che gli impedisce di muoversi e parlare normalmente pur mantenendo inalterato il funzionamento del cervello. Nel film di James Marsch, a ragione, la malattia non è una figura nera incappucciata con la falce, anzi. Dal regista britannico ci viene presentata quasi come il motore di una strana, ma semplice, relazione tra studenti universitari che improvvisamente diviene l'impegno della vita: è quello che accade a Jane, tanto genuinamente innamorata del suo ragazzo da seguirlo nella sua disavventura (quasi) per sempre.
Ma la vita non è una favola, neppure quella di Stephen Hawking: quando un amore finisce (o quando ne comincia parallelamente un altro) c'è poco di che sognare. In fondo, anche Stephen e Jane sono due esseri umani, fatti di carne, e soggetti all'affetto che altri sono in grado di offrire. Il loro non è il Vissero per sempre felici e contenti che tutti, me compreso, si aspettavano.
A dare vita all'astrofisico britannico è Eddie Redmayne, il quale inizialmente infastidisce per le sue smorfie: un po' Bruce Banner, un po' Quasimodo, un po' quasi fuori luogo. Per chi come me non conosce gli effetti di quella malattia, purtroppo l'effetto visivo è esattamente quello di cui ho detto prima. Pian piano, però, ci si abitua all'approccio estroverso di Redmayne, il quale lentamente si accartoccia su se stesso, annoda la lingua fino a pronunciare tre parole per volta, e sorride così tanto che il timore e l'angoscia che sembrano cogliere inizialmente lo spettatore sparisce progressivamente. Il suo sguardo dolce, intervallato ai big eyes di Felicity Jones fanno affrontare alla leggera una tematica non facile da mettere in scena. Accartocciato lo è anche James Marsch, che dirige sì l'opera ma è decisamente invisibile di fronte alla bravura dei due giovani attori. Non sarebbe per niente ingiusto vedere un bel testa a testa tutto britannico alle notte degli Oscar tra Redmayne e Cumberbatch: del resto, quest’ultimo, aveva indossato proprio i panni di Hawking nell'omonimo film del 2004. A mio avviso, il primo ha fatto meglio del secondo: per una volta il genio non è né maledetto, né antipatico.