Il titolo del nuovo film di Eugène Green, regista americano naturalizzato francese fra i più singolari della scena internazionale, fa riferimento a Sant’Ivo alla Sapienza, una delle più celebri chiese di Roma, capolavoro del barocco e di tutta l’architettura, realizzata dal Borromini nella seconda metà del Seicento.
Il Borromini è proprio uno dei punti di riferimento morali, lavorativi e artistici di Alexandre (Fabrizio Rongione, attore feticcio dei Dardenne), appassionato architetto di origini svizzere, armato di una forma quasi indissolubile di tesa sfiducia nei confronti della propria professione, che concepisce l’architettura come chiara consapevolezza di cosa e dove non costruire, come mezzo di espressione di un sentimento del sacro, della spiritualità, caratteristiche ormai sempre più fumose e tristemente rare. Per cercare di portare a termine un lavoro sull’amato Borromini, Alexandre decide di intraprendere un viaggio in Italia insieme alla moglie Aliénor, studiosa del comportamento in contesti svantaggiati, con la quale intrattiene da tempo rapporti basati su freddezza e silenziose incomprensioni. Il viaggio, anche inconsapevolmente, rappresenterà un tentativo da parte di entrambi di smussare la loro crisi esistenziale, e un incontro inaspettato con due giovani potrebbe costituire l’inizio di un cambiamento interiore.
Come le creazioni del Borromini, La Sapienza è un film sottilmente stravagante nella sua limpidezza, inconsueto e anomalo dal primo all’ultimo minuto: i protagonisti spesso si addentrano in peculiari discorsi e riflessioni sull’architettura e sull’arte con una recitazione quasi brechtiana, con dialoghi scanditi con piacevole nettezza e precisione, ma offerti con una sorta di incantevole pudore, una (apparente?) calma che destabilizza come l’inaspettata gentilezza di un gesto trattenuto. Le inquadrature sono sempre elaborate e costruite meticolosamente, e, nella maggior parte dei casi, i campo/controcampo consistono in un’alternanza di volti in primo piano che guardano direttamente nella macchina da presa, andando così in una direzione anticlassica e creando un senso di straniamento.
Ma ciò che colpisce maggiormente per la sua originalità è la visione di Roma. Qui la capitale, svuotata dai suoi eccessi caotici e realistici di (problematica) metropoli, si fa mondo fuori dal mondo, che Green decide di mostrare essenzialmente attraverso gli interni di chiese e palazzi barocchi, trasformati in ideali situazioni visive che spingono l’occhio a lasciarsi andare, affinché venga definitivamente raggiunto da una luce di sacro e spiritualità. Non, dunque, Barocco (inteso anche come sgradevole, ma affascinante labirinto e caos) superbamente aggressivo della città palesemente presente in Roma di Fellini o in Il ventre dell’architetto di Greenaway, ma spazi che conducono le idee di chi è disposto a capirli nel loro intimo verso un cielo ideale, un Iperuranio, verso una luce. La luce.
Con La Sapienza Green ci regala un sentore di irrealtà insistente ma delicato, una singolarità salutare per gli occhi, quasi rilassante, perfetta per far rinascere lo sguardo.