Si sa, le fiabe germaniche non brillano per allegria: narrano storie difficili, dal sapore amaro che, come il folklore o la mitologia di cui sono germinazione, spesso negano il lieto fine. Ma fra le tante fiabe composte dal danese H.C. Andersen, quella portata in scena da Cà Luogo d’Arte rappresenta una anomalia del genere: a ben guardare, infatti, La piccola fiammiferaia manca totalmente di intreccio; vale a dire, così come comincia si conclude. Senza speranza.
Sorprende non poco, dunque, scoprire che durante le feste di Natale e per un pubblico di bambini moderno – cioè tendenzialmente assuefatto a finzioni stupefacenti ed edulcorate – sia stata allestita una fiaba dell’Ottocento, senza colpi di scena né magie e, per di più, ferocemente triste. Salendo le scale in direzione Squarzina, però, le cose cominciano a cambiare: una musica allegra invita i piccoli spettatori non tanto nell’anonima sala conferenze dell’Argentina ma in un teatrino da antica fiera di paese, con teli di stoffa a far da soffitto, pareti rosse di legno dipinto, coriandoli bianchi di neve, e minute panche a gradoni sulle quali stringersi tutti assieme.
Ad accogliere i nuovi arrivati una bambina (Olga Bercini), qualche anno più grande, in abiti lisi; è una servetta ingaggiata dalla compagnia itinerante proprietaria del carrozzone, che al di qua del sipario ci confessa un segreto: portare in scena anche lei un giorno la sua storia preferita, l’unica che conosce, quella che più sente vicina a sé. Ed è proprio da questo desiderio che la fiaba di Andersen prende forma sul piccolo palco.
Difatti, al di là della brillante performance delle piccola protagonista, della deliziosa costruzione scenografica (Serena De Gier) o delle accattivanti caratterizzazioni degli interpreti (Francesca Bizzarri, Alberto Branca, Massimiliano Grazioli), è proprio la creazione di questa nuova cornice narrativa a contraddistinguere la messa in scena di Maurizio Bercini e a rispondere cosi in maniera arguta ed efficace alla monotonalità della fiaba originaria (testo Marina Allegri). La narrazione, infatti, è costantemente interrotta dal rifiuto degli attori “adulti” di rappresentare una storia tanto triste e dalle insistenze della bambina ad andare avanti, una continua inversione di spinte che non solo stempera l’umore della storia ma crea altresì un intreccio metateatrale che funge da riflesso esegetico della fiaba; insomma, gli attori-non-personaggi diventano la mediazione tra la storia e la vita.
Ma perché la bambina ci tiene tanto a raccontare la triste vicenda di una fiammiferaia costretta dal patrigno ubriaco a vendere cerini sotto la neve l’ultimo dell’anno, fino a spegnersi nel calore di una fiamma che non può scaldare? Forse perché senza la morale esplicita di una favola classica o la denuncia caustica di una fiaba di Roald Dahl, questa bambina ci vuole dire che non le piace e non riesco proprio a capire la fretta, l’esitazione, l’indifferenza degli adulti, che se crescere significa diventare impermeabili al mondo solo per sopravvivere, forse è meglio bruciarsi nella visione di una luce immaginata.
Ed ecco allora che, tutto a un tratto, la “vecchia” fiaba supera i confini temporali, mostrandoci un gelo costante, che dal classismo ottocentesco all’alienazione contemporanea non ha ancora smesso di fare vittime.
Ascolto consigliato
Sala Squarzina, Teatro Argentina, Roma – 27 dicembre 2014