La nera di Dino Buzzati
Crimini e misteri, questo il titolo del primo volume del cofanetto nel quale si trovano raccolti molti articoli di “nera” scritti da Dino Buzzati per il Corriere della Sera e per il Corriere d’informazione nel corso della sua trentennale collaborazione con questi due giornali.
È cronaca che Buzzati rende letteratura, portandola a perdere quei connotati di spinto voyeurismo che, malgrado la bontà delle intenzioni iniziali, finiscono sempre per appartenerle.
Siamo abituati ad una cronaca italiana che, da sempre, nutre un interesse mostruosamente morboso per i fatti di sangue più efferati: più grande è lo strazio, più atroce è il delitto, più la dimensione privata del dolore si assottiglia, fino quasi ad annullarsi.
Tutti ci sentiamo coinvolti: gli “spettatori” in quanto parte di una comunità che è stata turbata ed offesa dal delitto, i cronisti in quanto delegati a indagare il dramma sin nei suoi particolari più insignificanti e squallidi.
La scrittura di Buzzati, sempre così bella, lucida, pulita pur nella sua disarmante semplicità, toglie imparzialità ai fatti; non si tratta solo di raccontare un evento, ma di trasfigurarlo in modo più o meno evidente, di corredarlo di umanità e di calore.
Egli ci trasmette impotenza e sbigottimento.
Non c’è presunzione nella sua scrittura, perché egli non vuole farci credere d’aver capito tutto quello a cui ha assistito, anche perché ci sono fatti che non possono proprio essere spiegati con la ragione.
Semplicemente solleva inquietanti interrogativi, utili sia per lui che per noi, circa la natura umana e le sue oscure, insondabili profondità.
Incubi costituisce la seconda parte dell’opera, con altri articoli, altri racconti, altra letteratura.
Qui, però, a differenza dei delitti narrati in Crimini e misteri, le vittime hanno raramente un volto (che sia quello di un campione di Formula 1 morto durante un giro di prova, o di una bimba di appena 11 anni che, per il dolore dell’abbandono, si è gettata da una finestra della struttura presso la quale era ospite): in fondo, nelle stragi di massa (che si tratti della caduta di un aereo, del cedimento di una diga, dell’affondamento di una barca o del tranciamento del cavo di una funivia), ciò che conta sono i numeri; vittime di un destino crudele, questi uomini, queste donne, questi bambini, non esistono più come storie a se stanti, come persone con un nome, degli affetti, un vissuto, ma solo come parte di un gruppo di sfortunati contro i quali un’ombra senza volto ha crudelmente tramato.
Allo stesso modo, quindi, nemmeno il “colpevole” ha nome, volto, sostanza: spesso lo si chiama caso, anche perché per pochi di questi incidenti si riuscirono a stabilire responsabilità, errori umani, giusto per cercare di farsene una ragione.
Buzzati ci racconta, qui, soprattutto di un’Italia in lutto, vedova (esemplare, per spiegare questo concetto, gli articoli che parlano della morte della squadra del Torino, perita nell’ormai celebre strage di Superga), incredula di fronte alla perversione di certe assurde coincidenze (come la vicinanza temporale di due incidenti, uno ferroviario, l’altro stradale, avvenuti nei pressi di Milano, lo stesso giorno).
C’è tanta pietà, tanta compassione, in Buzzati, che, in questo senso, incarna ed amplifica perfettamente i sentimenti degli italiani di quegli anni, per quelle vittime, ma c’è anche, e soprattutto, voglia di ricordare, di serbare memoria, sperando, forse, che un giorno questa possa servire ad evitare altri analoghi fattacci: ne è un esempio la commossa ostinazione con la quale riporta all’attenzione collettiva il disastro del Vajont.
Vediamo, nell’umanissimo cronista, la straziata rassegnazione di chi vorrebbe consolare la propria gente, ma non può; vediamo soprattutto una suprema tenerezza verso i bambini, i cui sogni e le cui speranze sono stati stroncati prima ancora di poter essere formulati.