La moglie del poliziotto – Philip Gröning
Nella nostra percezione di spettatori ci siamo disabituati al silenzio. Il rumore è la costante colonna sonora delle nostre esistenze e attraversare un’esperienza cinematografica fatta di silenzio è per le nostre orecchie più faticoso che sopportare il fragore spacca-timpani di un’esplosione.
Il tedesco di Düsseldorf Philip Gröning, classe 1959, dopo aver girato il fortunato Il Grande Silenzio, documentario sulla vita in un monastero di clausura francese, ha portato in laguna La moglie del poliziotto, l’opera più radicale tra quelle finora viste della selezione ufficiale. Soltanto quattro attori, una famiglia della remota provincia tedesca ed un enigmatico anziano vicino di casa, per tre ore di film suddivise nell’apparentemente insostenibile suddivisione di 59 “capitoli”. Azione ridotta al minimo, denudata fino a mostrare lo scheletro di una violenza domestica soffocata, negata in nome del vincolo familiare.
Si intuisce un disagio latente nel legame di coppia tra un abitudinario poliziotto di paese e sua moglie, e le conseguenze di questa tensione si ripercuotono sulla emotività in formazione della loro bambina. Fino ad un finale che è insieme disperato e catartico, in cui ogni spettatore potrà vedere soluzione ed esiti differenti. Nel film di Gröning tutto sembra morire sotto la gelida neve di un silenzio che è, anche, assenza di comunicazione tra membri della stessa famiglia. Eppure, esattamente come alla morte di un gelido inverno segue la speranza della primavera, al silenzio sono associate molte immagini di vita, rinascita e creazione: i passi felpati di una volpe che si aggira nella notte del paese, il germogliare dei semi che la piccola protagonista coltiva insieme a sua madre, il delinearsi e l’infrangersi di una bolla di sapone, l’amniotica potenza rigeneratrice dell’acqua.
Anche la già citata suddivisione in capitoli sembra, a guardar bene, un mezzo per giungere alla totale eliminazione di quel “rumore” che il montaggio inevitabilmente avrebbe generato nella collisione brusca tra una sequenza e l’altra. Non inganni quindi, o spaventi, la mole di “capitoli” che compongono il film: quelli che Gröning chiama così non sono che le normali sequenze di una progressione narrativa, separate da una interessantissima scelta di montaggio che le fa lentamente morire in una prima dissolvenza al nero e lentamente risorgere.
Ogni capitolo si delinea come un livello di avanzamento dentro un tracciato filmico che è graduale itinerario di conoscenza ed esperienza. Singolare sperimentare come ad ogni capitolo si sia accompagnata, durante la proiezione ufficiale, una lenta emorragia di pubblico, a conferma di quanto possa risultare ostica e punitiva ai nostri occhi di spettatori anestetizzati dal rumore un’opera così estrema. Eppure, forse, la fatica non è del tutto sprecata. E sopravvivere fino all’ultimo dei livelli, come in un videogame insonorizzato, può riservare più di una soddisfazione.