La fragilità dei vinti
La III edizione dei Teatri della Cupa. Seconda parte
Impresa quantomeno faticosa, oggi, quella di conquistare la fiducia di qualcuno. Specie in ambito culturale. È un processo lungo e costante, non privo di rischi, in cui ogni mezzo passo falso viene spesso pagato a caro prezzo, soprattutto quando si è agli inizi di un percorso. D’altronde ne era convinto anche Jean-Paul Sartre quando diceva che «la fiducia si guadagna goccia a goccia, ma si perde a litri».
Come abbiamo già visto nell’articolo precedente, però, Factory Compagnia Transadriatica e Principio Attivo Teatro, con la loro terza edizione dei Teatri della Cupa procedono spediti nell’opera di sensibilizzazione culturale, accrescimento e coinvolgimento della propria comunità. Questo anche grazie a una proposta (direzione artistica Tonio De Nitto e Raffaella Romano) che oggi, a livello di stimoli, riflessioni e qualità non sempre è facile trovare in intere stagioni nei teatri pugliesi, figuriamoci nei festival. Analizziamola.
La programmazione appare nettamente divisa in due parti, con gli spettacoli per tutte le età (gratuiti) destinati alle piazze caratterizzati da una spiccata comicità rispetto agli altri che si sono avvicendati tra il Teatro Comunale di Novoli e il giardino di Casa Prato (Campi Salentina). È il caso dei Meridiani Perduti, che su una panchina posizionata nella Piazzetta Bottari Maddalo (Campi Salentina) danno vita a La grande fuga, storia di tre arzilli anziani (Sara e Giammarco Bevilacqua, Antonio Guadalupi) in cerca dell’ultimo sussulto necessario a evadere da una vecchiaia mal sopportata e supportata in ambito famigliare. Liberamente ispirato a Classe di ferro di Aldo Nicolaj, lo spettacolo, pur creando consensi tra il pubblico, ci propone dei Meridiani Perduti quasi inediti, più orientati verso gag e risate che fanno scivolare in secondo piano una riflessione, quella individuale e sociale, che ben aveva contraddistinto i precedenti lavori.
Spostiamoci nell’altra piazza di Campi – Libertà – dove a bordo di un’ape-car ci raggiungono i due protagonisti (Dario Cadei e Otto Marco Mercante) di L’inevitabile sfida di Don Chisciotte e Sancio Panza (Cà luogo d’arte e Principio Attivo Teatro). Il classico di Cervantes s’intreccia alla nostra quotidianità nelle parole e nel goffo portamento dei due “pazzi visionari” in scena alla costante ed estenuante ricerca di un pubblico che ascolti e accolga le loro gesta apparentemente fuori dall’ordinario. Uno spettacolo che molto spesso punta sull’istrionismo dei suoi personaggi e forse necessita – specie inizialmente – di una maggiore incisività a livello drammaturgico. Un po’ Don Chisciotte e Sancho Panza lo sono anche i due equilibristi (Valentin Hecker e Soledad Prieto) che in Piazza Regina Margherita (Novoli) inventano un’imbarcazione muovendosi abilmente e coraggiosamente su un filo. I due avventurieri di Naufraghi per scelta (Los Filonautas), affrontano le più svariate avventure destreggiandosi tra mirabili tecniche circensi, acrobatiche e musicali con il fine di trovare finalmente, nel loro lungo peregrinare, quella piccola certezza che gli consenta di ripartire nuovamente.
Di altra natura sono, invece, gli altri spettacoli di cui abbiamo già abbondantemente parlato nelle nostre pagine e che tenteremo di sintetizzare e far dialogare in queste righe. Sono opere che affondano le radici in maniera più sostanziale nelle urgenze quotidiane – siano esse individuali o comunitarie – senza avere alcun timore di schierarsi apertamente e francamente dalla parte degli emarginati, di mostrare le proprie ferite ancora aperte, o di avvalorare pensieri e tesi impopolari. Partiamo da Canti per la vita quotidiana – a cosa serve la poesia… dei due attori-poeti, Gianluigi Gherzi e Giuseppe Semeraro . Due voci che si rincorrono e fondono a colpi di versi poetici che partono dal quotidiano per scrutarlo, scomporlo, talvolta deriderlo e tentare un’evasione dall’ordinario troppo spesso deprimente. «A cosa serve la poesia?», si chiedono continuamente i due in scena, e il tentativo di dare una risposta a questa domanda così profonda e complessa diventa veicolo per ampliare lo sguardo e diventare mezzo espressivo che unisce e stringe l’anima della coppia in scena con quella degli spettatori.
E sicuramente tra le loro evocazioni poetiche potremmo inglobare il personaggio tragicomico (Serena Balivo) di Esilio della Piccola Compagnia Dammacco. Eterno vinto di un sistema omologante, goffamente vestito di un abito di qualche taglia più grande, il protagonista dello spettacolo ha perso il suo lavoro, unico contatto umano con la società che ora lo respinge più che mai. A tratteggiarne gli stati d’animo c’è una coscienza (Mariano Dammacco) che scandisce i tempi di una rassegnazione senza via di scampo e che si sintetizza con le parole finali di un uomo ormai ridotto a pupazzo: «sto bene, benissimo, grazie, e tu come stai?».
Già, tu come stai? Sarebbe interessante chiederlo al Dj androgino (Roberto Latini) autore del disperato e ammaliante canto d’amore nel Canto dei Cantici, o all’anatroccolo (Francesca De Pasquale) schernito dai suoi compagni di viaggio in tutte le sue tappe esistenziali nel toccante Diario di un brutto anatroccolo di Factory Compagnia Transadriatica. Se il primo si lascia schiacciare e rinvigorire dalle mille sfaccettature di un amore mai domo e domabile che trae linfa vitale da pagine bibliche rese contemporanee; la seconda, come nella fiaba di Andersen da cui prende ispirazione, riesce a scoprire – in uno struggente epilogo – la sua vera identità e ad accettarsi in un mondo in cui regna imperturbabile l’ostilità.
Sconfitti, vinti, esclusi, l’arte li ha sempre amati. Un po’ meno la società, perché, in fondo, dove c’è un emarginato c’è quasi sempre qualcuno che lo mette ai margini. Si potrebbe attribuire tutta la colpa all’omologazione, certo, ma dimentichiamo quanto sia facile per un individuo ignorare qualcuno o glissare qualcosa pur, sia chiaro, ostentando presunte conoscenze al riguardo. Ma nonostante tutto siamo pur sempre «brava gente», come scandiscono Frosini/Timpano nell’epilogo di Acqua di colonia. Zibaldino africano. Nel loro audace, brillante e ironico spettacolo, il duo romano ci dimostra quanto sia facile salire sul carro del luogo comune e troppo complicato, invece, comprendere e affrontare il “problema” partendo dalle basi. Torna qualcosa?
Tanta qualità e spunti di riflessione, dunque, per un festival che è diventato in pochi anni certezza e fiore all’occhiello dell’estate teatrale pugliese. L’importante ora è cercare di non accontentarsi, continuare a rilanciare su scelte che conducano verso una sempre costante crescita individuale e comunitaria.
Ascolto consigliato
Novoli e Campi Salentina (LE) – 27, 30,31 luglio e 1 agosto