La foresta di ghiaccio, pellicola italiana diretta da Claudio Noce (che collabora anche alla sceneggiatura) categoria di appartenenza: Cinema d’oggi , sembrerebbe essere un avvincente thriller capace di coinvolgere e stravolgere il pubblico, di lasciarlo con il respiro sospeso a metà tra desiderio e angoscia.
Sembrerebbe. Perché tutto svanisce nei fumi di un grossolano accostamento tra un desolato e gelido villaggio montano (al confine tra Italia e Slovenia, via di salvezza per i molti profughi dell’ex-Jugoslavia) di cupa e ammiccante ambiguità western – con qualche variante: ghiaccio invece di polvere, pick-up al posto di cavalli, e tante, troppe occhiatacce soffermate in inspiegabili ed eccessivi ralenti situazioni appena abbozzate e personaggi tanto loschi e misteriosi quanto poco (molto poco) influenti. A partire dai protagonisti: Lorenzo (Adriano Giannini), cappello da cow-boy, sigaro tra le labbra, e fedele destriero-quad, altro non fa che dedicarsi all’alcool, alle donne e ai malaffari; la slovena Lana (Ksenia Rappoport), zoologa studiosa di orsi che si diletta come investigatrice privata specialista di persone scomparse; Pietro (Domenico Diele), giovane forestiero dall’immancabile passato oscuro e tecnico specializzato giunto per aggiustare un guasto alla centrale elettrica ubicata su una diga.
Non deve passare troppo tempo prima che il film dia segni di cedimento. E questo a scapito di una regia sporcata dai movimenti imperfetti della macchina a mano, che dona all’immagine il ruvido fascino dell’immediatezza e dell’autenticità; di una fotografia che amalgama bene i toni cupi e i chiaroscuri che levigano volti e corpi con il candore di una luce quasi asettica che trasmette sulla pelle le lame del gelo invernale; di una musica che agisce da ritmico dosatore di tensione. Gli scricchiolii partono dalla sceneggiatura sfilacciata, dilatata e poco coinvolgente che non incide, non approfondisce personaggi e dinamiche, accompagnando lo spettatore in un viaggio nel disorientamento fatto di rimbalzi tra figure slegate fra loro stesse e perennemente estranee alla storia, di suspense sfumata in mera attesa, d’intrighi sciolti in un superficiale labirinto narrativo e, soprattutto, di un coinvolgimento che si abbandona a una bieca apatia (lunga quasi due ore).