La felicità è una cosa semplice
Di sgomberi, Čechov e capitalismo nel Giardino dei ciliegi di Kepler-452
Non è inusuale a Roma svegliarsi una mattina e venire a conoscenza di uno sgombero da qualche parte della città, anzi, purtroppo è una prassi abbastanza frequente. Quale che sia il motivo di uno sgombero o il luogo in cui avviene, esso sancisce quasi sempre la vittoria dei poteri forti sulla società civile, un sentimento di rabbia e impotenza da parte di chi può solo stare a guardare, la fine di una fase e l’inizio di una nuova.
Comincia dalla citazione di una serie di sgomberi Il giardino dei ciliegi.Trent’anni di felicità in comodato d’uso della compagnia Kepler-452, sgomberi non appartenenti a Roma ma a Bologna, città dalla geografia sociale e culturale altrettanto complessa.
Ed è curioso notare come dal racconto dell’auto-sgombero, potremmo chiamarlo, dello street artist Blu (che nel 2016 cancellò tutte le sue opere per evitare che venissero esposte in una mostra a pagamento) si passi poi al Giardino dei ciliegi come se non fosse un’opera di finzione: come se davvero in quell’anno imprecisato dell’Ottocento i fratelli aristocratici Ljuba e Gaev fossero davvero esistiti e fatti sgomberare dalla loro casa d’infanzia da Lopachin, nuovo proprietario della casa e simbolo di una nuova classe borghese in ascesa. Questa è la prima contaminazione fra realtà e teatro che caratterizzerà questo non-adattamento di Čechov che si spinge fino ai nostri giorni.
Nell’autunno del 2016 la compagnia Kepler-452 (Nicola Borghesi, Enrico Baraldi e Paola Aiello) non si accontenta infatti di provare Il giardino dei ciliegi ma setaccia la città alla ricerca di un altro “giardino dell’anima”, degli affetti e della memoria, fino a quando un giorno avviene l’incontro decisivo con Annalisa Lenzi e Giuliano Bianchi, una coppia di signori sfrattati dalla loro casa colonica concessa in comodato d’uso alla periferia di Bologna in cui sono vissuti serenamente, per trent’anni, immersi in un insolito ecosistema fatto di persone e animali esotici (Bianchi nella vita fa il tassidermista).
Rondini, poiane, il pappagallo Ara, un lupo, una tarantola, volpi del deserto, furetti, maiali, somari, camaleonti, un baobab, e ancora una famiglia rom, detenuti ex-41 bis, sono tra i tanti ospiti che dai due coniugi hanno sempre trovato accoglienza in una realtà magica e surreale, un giorno come un altro spazzata via da una lettera del comune di Bologna che intimava gli inquilini di andarsene per lasciare spazio alla costruzione di F.I.CO. – «il parco agroalimentare più grande del mondo» – e quindi alla logica del profitto. Ecco la modernità che avanza spezzando drasticamente una vita trascorsa che persiste nel ricordo; ed ecco Čechov fare capolino dal passato per entrare in cortocircuito con la realtà.
La scena del Teatro India (Letizia Calori) è ingombra di oggetti: gabbie vuote di varie dimensioni, pacchi, abat-jours, un divano, strumenti musicali, uno schermo. Le luci (Vincent Longuemare) sono avvolgenti per accentuare l’aspetto di un focolare caotico in mezzo al quale la coppia sembra avere un’aria goffa e un po’ incerta, come se fosse stata catapultata lì da un altro pianeta. La distanza fra loro e gli attori – in scena oltre a Borghesi ci sono Paola Aiello e Lodovico Guenzi, frontman de Lo Stato Sociale – è evidente e non si fa niente per nasconderlo, perché i due «experts of everyday life», come li chiamerebbero i Rimini Protokoll, non hanno il ruolo di attori ma quello di testimoni di una propria, intima verità che si dipana accanto alla finzione per svelarne allo stesso tempo la prossimità e l’alterità.
In scena, si leggeranno allora brani del Giardino dei ciliegi, con la coppia in pellicce ingombranti e accento bolognese alle prese con parole assai simili a ciò che hanno vissuto; ma poi, fra istanze politiche e poetiche, i due parleranno con la compagnia del teatro di Čechov, dei ricordi, delle tappe del loro incontro, di speculazioni edilizie, del lavoro di Bianchi che sa parlare con i piccioni, dell’invito a pranzo a base di polpo nella nuova casa dei due coniugi al Residence Galaxy, pur avendo 50 euro sul conto in banca, il tutto alternando momenti d’improvvisazione a una drammaturgia più strutturata.
È il teatro che si nutre della vita e viceversa, come succede alla festa del terzo atto del Giardino in cui Lopachin/Guenzi annuncia di aver comprato la casa mentre si scivola piano piano nella notizia dello sfratto raccontato da Lenzi tra i ricordi confusi; è questo il momento più toccante dello spettacolo, in cui la tragicità del reale e il senso di ineluttabilità del teatro di Čechov si fondono in un tutt’uno.
Mentre Lenzi e Bianchi sono in scena, Borghesi, Guenzi e Aiello interpretano, improvvisano, sono i personaggi di Čechov e poi tornano loro stessi, mimano quando non trovano più le parole e tutto succede con grande efficacia e padronanza dei propri mezzi espressivi, come anche delle urgenze che attraverso di essi prendono vita. Se la coppia di non-attori è portatrice sana di una fragilità, di una marginalità, di un tempo prezioso che va oltre la produzione seriale e guarda alla natura e ai suoi ritmi, in poche parole di una diversità struggente che non si adegua al consumismo odierno; dove siamo noi, i nuovi borghesi? e chi siamo rispetto a «Giuliano e Annalisa»?
Noi “siamo nel mezzo”: fra chi guarda con distanza critica quella modernizzazione che leva un po’ d’anima alla città e alla persona e quelli che poi, nonostante tutto, ci si ritrovano immersi e devono accettarne le regole: quelli che criticano posti come F.I.CO e poi ci vanno a fare gli aperitivi, come afferma Guenzi nell’arguta autocritica a sé stesso (e alla sua musica): da un lato schierato dalla parte dei Bianchi ma dall’altro consapevole di rimanere irriducibilmente diverso.
Così, gli attori portano in scena «la loro stessa distanza, i loro imbarazzi» – come scrive Massimo Marino sul Corriere di Bologna – guardando ai coniugi consapevoli della crepa fra un «noi» e un «loro», una dolorosa constatazione di un divario socio-culturale che certo non inficia un’amicizia: fra una coppia che ha vissuto una vita nel senso più alto della condivisione, della relazione e della semplicità e una generazione di trentenni disorientata che non condivide se non virtualmente e non riesce ad essere felice. Mica come Giuliano e Annalisa, che con quel poco che avevano nella loro oasi di periferia lo sono sempre stati, insieme, davanti al caminetto. C’è qualcosa che si è inceppato nel passaggio fra noi e loro, sembra suggerire Kepler-452: «In città abbiamo tutto, ma qualcosa manca».
Presentato a Roma (tornerà in stagione al TdR a febbraio’19) in occasione di Dominio Pubblico – il festival multidisciplinare ideato e progettato da ragazzi under 25 – e con alle spalle la produzione di ERT (un segnale importante se una giovane compagnia può essere sostenuta da un Nazionale), Il giardino dei ciliegi è uno spettacolo poco incasellabile per la molteplicità delle sue traiettorie.
Rappresenta infatti, fra le altre cose, una riflessione sulla felicità, sull’amore e sull’amicizia che oltrepassano qualsiasi atto burocratico; è un confronto fra l’identità di due generazioni, un incontro fra un capolavoro del teatro e la vita reale. È l’attraversamento di una geografia politica bolognese in continua trasformazione; il passaggio da una società del passato che conserva un’”anima” a un nuovo modello di società globalizzata e, non ultimo, è una riflessione stessa sul teatro e sulle possibilità di trasporre sulla scena una storia in modi ancora inediti.
Come evidenzia Andrea Porcheddu, questo Giardino possiede quindi «un valore ulteriore, generazionale, politico, culturale». Tuttavia, per la complessità di tutte le questioni messe in campo, è difficile riuscire a metterle a fuoco allo stesso modo: la compagnia, leggiamo nel comunicato stampa, prova ad «innamorarsi senza perdere la lucidità», ma forse quell’amore – sacrosanto – verso la storia di Lenzi e Bianchi suscita una forte aderenza emotiva che edulcora uno sguardo più incisivo sulla realtà dei fatti (per approfondire, rimandiamo alle riflessioni di Stefano Casi e Renzo Francabandera). Eppure, Kepler-452 recupera appieno la lucidità quando si tratta di osservare criticamente dall’esterno la propria generazione e la sua affannosa ricerca di un’identità, di formularne domande e contraddizioni, senza dimenticare al contempo l’amore per la propria città, per il teatro, per gli incontri che cambiano inaspettatamente il corso di uno spettacolo e di una vita.
Ascolto consigliato
Teatro India, Roma – 29 maggio 2018
IL GIARDINO DEI CILIEGI
Trent’anni di felicità in comodato d’uso
ideazione e drammaturgia Kepler – 452 (Aiello, Baraldi, Borghesi)
regia Nicola Borghesi
con Annalisa e Giuliano Bianchi, Paola Aiello, Nicola Borghesi, Lodovico Guenzi
regista assistente Enrico Baraldi
assistente alla regia Michela Buscema
luci Vincent Longuemare
suoni Alberto “Bebo” Guidetti
scene e costumi Letizia Calori
video Chiara Caliò
foto Luca Del Pia
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione