Animali in gabbia che si sfidano, si saltano al collo, si leccano, in una quotidianità azzannata da una risata. In questa «ora di una famiglia come tante», quattro attori – per dieci personaggi – testano la propria e l’altrui resistenza a un mondo che sembra ormai condannato a morte. Chi sarà ad azionare l’interruttore dell’alta tensione? Beh, ovviamente la comicità toscana de Gli Omini.
Il disegno sulla locandina de La Famiglia Campione, d’altronde, già suggeriva qualcosa: con quel suo grezzo bianco e nero, e quel mezzo busto dai tratti elementari subito riportava alla mente i brutti ceffi dell’irriverente cartone animato statunitense anni ’90 Beavis and Butt-Head. Se allora i due “fumati fancazzisti” intervallavano la loro vita a videoclip musicali rimanendosene inerti a oziare sul divano; ora, tre generazioni rinchiuse sotto lo stesso tetto (sop)portano la propria esistenza con proiezioni immaginarie di sé stesse, irrimediabilmente ferme al via.
Eppure qualcosa forse cambia. Forse uno dei fratelli domani se ne andrà via; chissà, forse lui ce la farà. Lui – il solo «sangue del mi’ sangue», come dice un babbo di questa famiglia allargata – non è mica come quegli altri tre senza arte né parte. Però, a essere onesti, anche Bianca se ne è andata, e addirittura prima: si è chiusa in bagno da una settimana; già, e di uscire non se ne parla.
Tra questi due accidenti, poi, si muovono come fermo-immagini le vite dei nonni, dei genitori e dei figli (interpretati tutti da Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Giulia e Luca Zacchini). Questi parenti serpenti di monicelliana memoria sembrano ormai un ingarbugliato groviglio di vipere, esauste dal loro stesso veleno; nella piccola Sala Wanda Capodaglio del Teatro della Pergola di Firenze ci ritroviamo così a due passi da una vana esistenza: la loro ma anche la nostra. La Famiglia Campione, rafforzata dalla sua dimensione provinciale, diventa «campione» allora nel senso più stretto: nazional-popolare; lungi dall’esser didascalica, parla, si rivolge a tutti, ci mostra nel modo più semplice possibile la dimensione della realtà filtrandola attraverso la lente ironica dell’umorismo.
Del resto «Campione» lo è di cognome ma anche di fatto. Un campione di Italia, di genitori separati che se eran più furbi, invece di risposarsi, «faceano meglio a convivere»; di figli che non sanno dove sbattere la testa e che è inutile si alzino presto se poi devono passare tutta la mattinata a domandarsi «icchè fo dalle dieci alle due?»; di nonni che pregano e dicono di «dassi daffare anche se ‘un c’è niente daffare». Un “campione” che è il frutto di anni di ricerche, indagini e laboratori condotti da Gli Omini stessi sul territorio toscano, e che ora trova la sua forma definitiva in questo spettacolo già premiato al teatro fiorentino nel 2014 per la ricerca drammaturgica e l’impegno civile.
Senza eccessi, con semplici e minimi cambi di abito, con una mimica cucita addosso come una seconda pelle, con volti e tempi comici che amplificano l’adesione nonché la comprensione più intima dell’intero spettacolo: si ride di gusto, si sorride amaramente, ci si aggiusta, ci si porta in avanti e indietro; e si commenta. Sì, anche se si è da soli, perché l’altra nostra metà è proprio lì, sul palcoscenico, a guardarci con l’irriverenza di un riflesso. «Bah! È vero!»