La città della gioia – Ennio Ruffolo | Macelleria Pasolini
«Donnaccia di un paese! Ha lasciato che i nostri assassini arrivassero fin dentro gli uteri e li scavassero come tombe», impreca sommessamente una donna. Forse non c’è nulla di più folle e disumano di una guerra alla deriva: quando perfino il burattinaio perde il controllo dei fili e i suoi pupazzi armati si trasformano in furie cieche che tutto violentano e tutto corrompono; tanto che alla fine non rimane più nulla, neanche il diritto al dolore.
Omaggio al poeta greco Kavafis (1863-1933), La città della gioia è innanzitutto una testimonianza, il lamento rassegnato di una donna che tenta di conservare ancora un briciolo di umanità mentre alle sue spalle si consuma il fratricidio: raccoglie così brandelli di ricordi e li mette assieme in una mesta poesia di guerra. È un’anima fragile, parata di un nero che sa di lutto; e il suo ventre, fasciato di porpora, è scosso da improvvise contrazioni, come se quella stoffa legata alla vita coprisse una piaga: ferita aperta di un paese che non smette di gettare sangue e partorisce ormai solamente aborti.
E mentre al Teatro dell’Orologio i versi di Kavafis riecheggiano nella voce sdegnata e rassegnata della donna (un’ottima Francesca Ballico), sullo sfondo appaiono le immagini dei recenti scontri ad Atene; dal passato riemerge il presente, il privato diventa pubblico, la solitudine di un’amante si trasforma così nel dolore inascoltato di una Grecia moderna che patisce l’indifferenza e l’abbandono della comunità internazionale.
Luci e suoni (Fabio Fiandrini, Vincenzo Scorza) si imprimono, allora, sulla pelle della donna come un tatuaggio di morte: effetti notevoli e suggestivi che raggiungono l’acme nella sovrapposizione degli scontri in piazza con una cruenta mattanza di tonni o con il brulichio ronzante di insetti che consumano dall’interno una carcassa. Quello della compagnia Macellerie Pasolini è, davvero, un dramma intriso di dolore, ma un dolore lucido e spassionato che se indugia nella crudezza lo fa solo perché è l’orrore da cui nasce a essere disumano, non la sua rappresentazione.
La città della gioia, dunque, nonostante una prima metà in cui si affida un po’ macchinalmente alla – pur pregevole – drammaturgia del regista Ennio Ruffolo (pregiudicandone purtroppo la ricezione), è uno spettacolo intenso che denuncia impietosamente le ipocrisie e le viltà di una società cieca. In fondo, non c’è bisogno di chiamarla guerra per capire che è follia: le vere vittime sono proprio coloro che finiscono per morire soli e inascoltati.