La Chica de la Agencia de Viajes… – El Conde de Torrefiel
È curioso che nel 2014, in una sala di teatro ricavata da un macello dismesso, a sentir dire, pardon, a veder scritte le parole «Che stronzo dio» vibri nell’aria un fremito di indignazione.
Qualcuno potrà obiettare che si è alzato e se n’è andato non tanto perché fosse turbato dalle “provocazioni” degli spagnoli El Conde de Torrefiel, ma perché lo spettacolo era obiettivamente noioso e fatto male. Legittimo, davvero – senza alcuna ipocrisia democratica –, così come legittima è l’impostazione dello spettacolo, la provocatorietà della compagnia, le critiche mosse, i sospiri, legittimo addirittura chi indignato dell’indignazione altrui ha battuto le mani con ostentato vigore; insomma, legittimo tutto. Per essere politicamente corretti? Assolutamente (che in italiano vuol dire «no»). Ma perché come direbbe Korzybski si tratta solo di piani semantici diversi: il teatro li dispone, lo spettatore (poco critico) li sovrappone. Prima di proseguire, però, qualche coordinata per chi non c’era.
La chica de la agencia de viajes nos dijo que habìa piscina en el apartamento (ovvero «La ragazza dell’agenzia viaggi ci disse che c’era la piscina nell’appartamento») è un viaggio nel viaggio. Il primo vede una coppia di amiche che si prende qualche giorno di ferie per staccare un po’ dalla quotidianità; il secondo si inscrive dentro questa cornice contestuale ed è il cuore dello spettacolo: un viaggio ideologico, un’odissea verbale che si snoda tra le “piaghe” della società contemporanea, scavando in maniera stentorea e impietosa il terreno paludoso su cui si è andato costruendo l’attuale presente, senza alcun timore di provocare o scandalizzare.
È bastato questo a colpire la sensibilità dei presenti? No, l’indignazione è stato il frutto di un’esasperazione; a indisporre, infatti, è stata innanzitutto la rigida composizione drammaturgica. Due le formule adottate e ripetute, in alternanza, per l’intera durata dello spettacolo: da un lato, il dialogo statico delle due protagoniste che, ritte di fronte a un microfono, con volto imperturbabile, snocciolavano pacatamente denunce e invettive; dall’altro, la rappresentazione performativa corale di spaccati di movida, corredata da lunghe didascalie narrative in perfetto e anacronistico stile film-muto.
Al di là delle infelici scelte tecniche di doppiare mantenendo la sovrapposizione delle voci (italiana fuori campo, spagnola in scena) e di proiettare le didascalie in caratteri piccoli, su fondi chiari e luci spesso accese, lo spettacolo in realtà ha creato difficoltà da un punto di vista fondamentalmente formale. Eppure dopo tutto quello che è accaduta nel Novecento fra arte concettuale, performance art, avanguardie e post-avanguardie o anche solo guardando alla produzione artistica spagnola post-franchista, i pubblici del ventunesimo secolo dovrebbero essere ben temprati, invece, seppur inconsapevolmente, sembra che «l’idea(le) della forma» continui a primeggiare. Non si tratta qui di giudicare se lo spettacolo fosse bello o brutto, piacevole o noioso, conforme o deforme, ma di chiedersi quanto l’idea oscuri la percezione, quanto cioè l’aspettativa domini sull’esperienza.
Forse a scatenare l’impazienza non è stato il semplice fatto di assistere (per un’oretta appena) a uno spettacolo macchinoso, ma la paura inconscia di non poter fuggire da una realtà che in fondo toccava personalmente, coinvolgeva e dunque disturbava. Ieri sera non ha prevalso l’indifferenza straniante che può provocare, ad esempio, un’opera di Schwab, bensì il turbamento speculare dei nostri stessi automatismi: ancora una volta il detto («cosa») è stato scavalcato dal dire («come»). Di fatto, il drammaturgo Pablo Gisbert ha messo in scacco il pubblico (comprese le preventivate defezioni), questo infatti si è lasciato esasperare dalla forma – reiterata e soffocante, fastidiosa e imbarazzante – di una rappresentazione che dopotutto era rigorosa e iper-realistica; confermando così la denuncia inascoltata (il famoso «contenuto») di un mondo contemporaneo superficiale e alienato.
Da questo punto di vista dunque si potrebbe dire che lo spettacolo è riuscito. Ma in fondo non era un mistero, bastava leggere il titolo: era stata promessa una piscina nell’appartamento, tutti ci hanno creduto, a nessuno è venuto in mente di insospettirsi.
La Pelanda, Roma – 5 settembre 2014