Foto di scena ©Duccio Burberi

Mamma, Papà, la tragedia è servita

De Summa officia 'La Cerimonia' dell'incomunicabilità

Quand’è che grida una persona? Quando ha paura, o quando vuole farne, il che poi è lo stesso. Cosa fa, invece, quando soffre? Tace.

A teatro però, per un’abitudine che piace a tanti e che noi davvero non sappiamo spiegarci, vale spesso il contrario. Perciò, ci scusiamo, ma la deficienza è tutta nostra. Se desiderate abbandonare qui la lettura è più che comprensibile.

Dunque. Nella città che insieme a Bologna e Milano sta dando prova della migliore stagione teatrale italiana, senza disporre dei fondi di un teatro nazionale, ha debuttato l’ultimo nuovo spettacolo di Oscar De Summa. Al Fabbrichino di Prato, per essere precisi. Produzione Metastasio. Lo stesso TRIC che ha prodotto Massimiliano Civica, Archivio Zeta e coprodotto Deflorian/Tagliarini. Il confronto a Roma sarebbe imbarazzante. Ma si tace. Vedi sopra. Con un bel sorriso leccato: che la bella figura è la prima cosa. E poi si gridano i numeri. Vedi Calbi, vedi Barbareschi. Ma comunque. Piaccia o meno, D’Ippolito dimostra che gli investimenti virtuosi si possono fare. Veniamo ai risultati.

Dopo la felice e fortunata chiusura della trilogia sulla provincia, De Summa decide di andare oltre il monologo d’attore e, stavolta, scrive e dirige uno spettacolo con tre personaggi, ritagliando per sé una (quarta) parte più «in minore». Intento nobile e saggio, che già aveva sperimentato a inizio stagione sempre in terra toscana (al Florida di Firenze, produzione Corte Ospitale) con la ripresa allargata del suo Riccardo III, che nonostante le scricchiolature aveva confermato le sue doti carismatiche e messo in luce quelle attoriali della neodiplomata (alla Silvio D’Amico) Marina Occhionero. Occhionero che ritroviamo ora ne La Cerimonia, in veste di protagonista. Passiamo alla storia.

Foto di scena ©Duccio Burberi

Un’adolescente, capace ma demotivata, sopravvive con sardonica freddezza alle continue schermaglie dei suoi genitori (V. Korn e M.Manfredi). Ad alleggerire e scompigliare il nervoso clima domestico, la presenza intermittente di un simpatico quanto eccentrico zio (De Summa). Al micro-scontro generazionale, o meglio, allo scontro impossibilitato, fa da ricamo l’evocazione rada del mito di Edipo, anche se è più nei nomi che nelle tensioni, rispettivamente: Edi(-po), Gió(-casta), Laio (in un primo momento, inspiegabilmente, “Albert”) e lo zio Tire(-sia). Quanto alla scena: sul piccolo palco pratese si alzano tre pareti a imbuto (trapezoidale), biancastre, stile carta di riso, e tra di esse, sul fondo, un piccolo rialzo con un tavolo e quattro sedie, a mo’ di disimpegno (scene L. Banci; luci R. Innocenti). L’azione avviene poco oltre, innanzi alla platea.

Foto di scena ©Duccio Burberi

Edi è protagonista e narratrice, eroe suo malgrado del dramma indolente dei nostri tempi. Tempi in cui la mollezza, l’abbondanza e la frustrazione stanno negando ogni possibilità di tragedia. Ed è proprio una tragedia quella che la ragazza cercherà di realizzare, come a far sì che l’eterno scontento di cui si alimenta la sua stagnante famiglia (e il nostro presente) recuperi una dignità, un po’ di verità quantomeno, nei rapporti.

Già potente ne La sorella di Gesùcristo, ritorna qui una sorta di respiro epico contemporaneo, che evidenzia l’urgenza in De Summa di storicizzare il nostro presente. Ecco allora ripresentarsi anche qui una scansione per capitoli di tensione, contrappuntati ogni volta da epigrafi e da slanci lirico-epici, come a sfondare l’insignificanza della parola quotidiana e – raddoppiandola-dilatandola fisicamente sulla scena stessa per mezzo di videoproiezioni – reclamarne una eco più profonda. Espediente che a sua volta sembrerebbe voler fungere altresì da coro moderno, al pari del tappeto musicale alt-rock anni ‘90 (in Stasera sono in vena era rock anni ‘70, ne La sorella di Gesùcristo post-rock anni ‘80 – in progressivo avvicinamento ai nostri tempi) che fa da vero e proprio sostrato storico-culturale.

Foto di scena ©Duccio Burberi

Insomma, La cerimonia è la scommessa di parlare del nostro tempo con una sensibilità culturale che raccolga tanto la lezione greca antica quanto la cifra stilistica della cinematografia più recente (film e serie) di matrice americana. Né pop né populista, ma popolare, cioè dal respiro collettivo. Una scommessa altissima, che è la grande scommessa di ogni tempo e la ancor più grande esigenza – più che urgenza – del nostro presente.

Purtroppo però La cerimonia finisce per rimanere schiacciata dai suoi lodevoli intenti, mettendo in campo così tante energie da faticare a trovarne una sintesi. Sintesi non tanto nel senso di quadratura del cerchio, o detto più semplicemente, confezionamento di uno spettacolo conchiuso e appagante, ma piuttosto sintesi quale superamento delle spinte e controspinte messe in gioco. Manca insomma, a nostro avviso, organicità.

La precarietà economica, la crisi d’identità, la perdita dei padri, lo sgretolamento dei valori, i traumi personali, l’apatia, l’anomia, la noia, la violenza, l’omosessualità, il millennium bug, gli echi classici, quelli contemporanei… Oscar De Summa macina e rimacina i grande temi dell’attualità ma non riesce ad armonizzarli in una partitura polifonica che ci porti a viverli in completa compartecipazione, costringendoci piuttosto a riconoscerli dall’esterno, tematicamente, quali disagi scottanti.

Foto di scena ©Duccio Burberi

È come se anziché comporre un’opera corale, De Summa avesse scomposto e suddiviso i suoi monologhi in piccoli soliloqui, relegati a ciascun personaggio, condannando pertanto i quattro protagonisti a un’impossibilità dialogica, che ancor prima che drammaturgica è strutturale. Così facendo, la scommessa passa tutta nelle mani degli attori e alla loro capacità di dare respiro e dolore al dramma dello smarrimento socio-esistenziale. Ma anche qui manca organicità. Soprattutto i due genitori, Vanessa Korn e Marco Manfredi, sono sempre tesi, nervosi, accalorati, talmente energici nella recitazione da esser paonazzi in volto. Come poter creder loro? Sembrano sapere ciò che provano, ma non sembrano provarlo.

Diversa situazione per De Summa e Occhionero, l’uno alter ego dell’altra, che agiscono da ironici deus ex machina, quasi la routine famigliare li toccasse fino a un certo punto, per poi però erompere in improvvisi accessi d’ira. La loro complessità incuriosisce di più, non è prevedibile come per gli altri, eppure anche in questo caso è troppo cerebrale, programmatica, solo a sprazzi lascia spazio a un pizzico di semplice e umano disorientamento.

Come dire. Singolarmente è tutto più che comprensibile, e spesso anche pregevole nella sua acutezza, ma a livello complessivo c’è qualcosa che non torna. E allora quel dolore profondo di chi si è smarrito nella società (nella famiglia, nella politica, nella religione, nella sessualità, nel sentimento) non è più credibile. O almeno, a noi appare troppo costruito. Tutto troppo consequenziale. Che è tara genetica dai tempi di Dumas prima Hollywood poi, da quando cioè la narrazione si è trasformata in industria, formalizzandosi in costruzioni conchiuse, generi precisi, ingredienti chiave, tipizzazioni facilmente riconoscibili, insomma, in una scrittura troppo immediata che taglia le gambe a qualunque profonda e irrisolvibile pulsione artistica.

Foto di scena ©Duccio Burberi

Ma siccome Oscar De Summa ha già dato grande prova di originalità, ribadiamo quanto già scritto qualche mese fa: perché non proseguire nel solco di una scrittura parzialmente autobiografica, felicemente sporcata di dialetto, spuria di vezzi di pedissequa attualità, senza lasciarsi tentare dall’ammorbante “drammaturgia contemporanea” d’oltremanica/oceano, furbetta, sorniona, buona per i pubblici da talent show, che già magra di suo, qui in Italia sta accendendo giusto qualche fuoco di paglia?

Se il migliore teatro nostrano sta venendo da realtà come Scimone/Sframeli, Vetrano/Randisi, Frosini/Timpano, Deflorian/Tagliarini, Albe, Carnevali, Santeramo, Sinisi, o insomma, artisti tutti che fuggono come la peste il cliché della storia da fiction simil-muccino (che di vero non si sa cos’abbia, se non la parvenza di dramma sociale), perché non riprendere la forma monologica o, se questa vuole essere superata, mandare al diavolo ogni compromesso (è evidente che De Summa si tarpi un po’ le ali rinunciando a qualcosa di unicamente suo che invece è inestimabile) e non dar vita a un teatro di ironia, dramma e verità, soltanto con la compatibilissima e notevole Marina Occhionero?

Foto di scena ©Duccio Burberi

Non ce ne vogliano i «genitori», ma lo spettacolo lo fanno tutto questi due piccoli grandi figli—e soprattutto quando smettono di cercare uno scontro. Edipo non ha mai avuto il famoso complesso, non avrebbe potuto: lo può avere soltanto chi vedendo la sua storia, sentendo dentro di sé la colpa che Edipo non poté provare fino in fondo, vi si riconosce.

Non abbiamo bisogno di gridare il nostro dramma, né di sentirci vittime speciali, ma di imparare a tacere per riscoprire, ascoltando il nostro vuoto, il senso tragico che ci rende tutti uomini, corresponsabili alla stessa maniera. O come diceva il Mefistofele di Goethe:

«Smettila di giocare con il dolore
che come un avvoltoio ti divora la vita!
Anche la peggiore compagnia ti fa sentire
che sei uomo in mezzo a uomini.»

Ascolto consigliato

Teatro Fabbrichino, Prato – 2 aprile 2017

In apertura: Foto di scena ©Duccio Burberi

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