La Casa di Eld – Oscar Gómez Mata/L’Alakran
Tutto scorre, forse, ma nel lento e involontario fluire della continuità c’è un problema che si ripresenta a ogni generazione: il passaggio di testimone da padre a figlio—il primo non è in grado di tramandare, il secondo non vuole ereditare. Così ogni volta qualcosa si perde – la volontà di continuare, per l’appunto – e ogni volta si deve attendere che il tempo abbia calato la sua falce per riscoprire l’importanza della trasmissione. La Casa di Eld, spettacolo inaugurale della rassegna romana Short Theatre, muove i passi proprio da questa passaggio.
Si parte da una fiaba, La Casa di Eld di R.L. Stevenson, che narra di un giovane di nome Jack il quale non capisce per quale motivo nel suo villaggio tutti siano costretti a portare un ceppo alla gamba. Così un giorno, dopo aver scoperto che le catene non sono un comandamento divino ma il sortilegio di uno stregone, il ragazzo decide di sfidare quest’ultimo e liberare il villaggio dalla maledizione. Superate le prove, Jack trionfa sul’incantatore, ma tornato al villaggio i risultati della sua impresa si riveleranno tutt’altro che felici.
Nelle intenzioni del regista basco Oscar Gómez Mata la fiaba vuole essere solo un canovaccio da cui partire per intessere linee, trame, forme: una matassa che si aggroviglia e si svolge fuori e dentro la rappresentazione, fuori e dentro il suo realizzarsi, fuori e dentro il suo significare. Una costruzione per l’appunto che non si limita alla messa in scena di una storia ma che si concretizza nel suo stesso manifestarsi.
Su un piano dunque abbiamo la fiaba; su un altro l’azione scenica, divisa fra tre attori che recitano la storia di Stevenson e l’intervento performativo semi-improvvisato di un gruppo di giovani “Jack” (dilettanti presi dal posto); su un altro piano ancora ci sono le strutture materiali e metaforiche – la realizzazione di un grande anello di legno o la trasfigurazione in video-arte del ritratto di Freud, ad esempio – che vengono montate e smontate; infine c’è il piano della compenetrazione, quella in cui il «farsi» del teatro diventa atto collettivo che coinvolge chiunque si trovi nel (non)luogo stesso del «teatro». I ragazzi, fulcro dell’intero spettacolo, infatti diventano il tramite di una comunicazione mancata: incarnano cioè quella generazione di Jack che gli adulti-spettatori abituati ai ceppi non hanno imparato a osservare.
La compagnia svizzera Cie L’Alakran rinuncia completamente pertanto a qualunque economia estetica, trasformando lo spettacolo in un incontro surreale fra attori e spettatori che va ben oltre il concetto di metateatralità. A contare qui non è la rappresentazione ma la performance, conta cioè mostrare al gremito pubblico di genitori che loro, i figli, esistono e hanno qualcosa da dire, che la loro non è una recita da riprendere orgogliosamente con lo smartphone ma un esistere che vuole essere colto.
La compenetrazione dei livelli è tale che a un tratto sfugge la natura dello spettacolo e l’edificio implode con tutti i suoi piani; ma forse è proprio questa l’intenzione, poiché se lo spettacolo appunto fallisce totalmente, lo show (da intendersi come ciò che viene «mostrato») sembra raggiungere il suo massimo grado di realizzazione, completando idealmente la fiaba di Stevenson: gli adulti si attengono a un passato che hanno dimenticato e i giovani vogliono cambiare un mondo che non conoscono.
La Pelanda, Roma – 4 settembre 2014