Sul PRS Magazine (UK) di questo mese, David Morley, ex direttore della rivista musicale britannica NME nonché produttore e musicista, si pone una domanda interessante in termini di impatto sociale della musica: la canzone di protesta è morta?
Morley sostiene che «la credenza romantica che la musica possa cambiare il mondo è ormai finita. […] Perché non esistono più le canzoni di protesta, che portano attenzione urgente sui temi del razzismo, della carestia, abusi politici e sociali, carcerazioni ingiuste, brutalità, torture, omicidi? […] Questo è un 21esimo secolo commerciale brillantemente piatto, in cui l’immaginario della cultura pop cambia l’aspetto e il suono del mondo solo a livello decorativo. Siamo tornati a prima dei ’50, prima di Guthrie, prima di Dylan, prima di Marley, […] prima che scomode, provocatorie domande poste dai musicisti minacciassero realmente i governi, reindirizzassero l’energia culturale, offendessero rigide tradizioni e mostrassero che la canzone pop era molto di più che un’attraente, frivolo modo di passare il tempo».
Ma è realmente così? In un saggio che ho scritto circa un anno fa, in inglese, in risposta alla domanda «Sono la musica e i musicisti ancora in grado di influire sul cambiamento a livello politico e sociale», ho preso in esame la campagna elettorale di Barack Obama per le presidenziali americane del 2008, sostenendo che in quel caso un vero e proprio movimento di sostegno a Obama era sorto dal mondo della musica, che si era di fatto schierato compatto a sostegno del Senatore dell’Illinois nella sua corsa alla Casa Bianca.
Resta però la generale sensazione di una vacuità intrinseca alla canzone di oggi e ai suoi interpreti, capaci sì, come nel caso di Obama, di accodarsi a un movimento sociale già in corso, come quello che ha favorito l’elezione di Obama, ma non di muovere più autonomamente le coscienze, di non porsi più come scomodo contraltare del potente, fatte salve alcune eccezioni come Springsteen o i Green Day – che certo però non sono figli del Duemila. Allora forse Morley ha ragione, e i motivi di una situazione di questo tipo possono essere molti e interessanti. Forse è solo un riflesso dei tempi. Forse qualcosa è cambiato, a livello sociale, non tanto nel musicista che manda il messaggio, quanto piuttosto nelle persone che lo ricevono, cosicché l’effetto di certe canzoni è zittito, silenziato, anestetizzato. Oppure, forse, le canzoni di protesta esistono ancora: ciò che non non esiste più è quell’agente sociale che le ascolta, le amplifica, le permea di senso, dà loro vita conferendo al contempo autorevolezza e personalità a chi le canta, una volta ‘sciamano’, ora qualcos’altro. Forse un elemento, come dice Morley, ‘brillantemente piatto’, ‘decorativo’.