Per chi è nato nell’era della globalizzazione – o a essa si è arreso – “cogliere le differenze” è diventata un’impressa assai complicata: subentrata la grande livella del consumismo, usi e costumi sono dispersi fra i fumi dell’omologazione, con buona pace delle diversità. Si prenda ad esempio la parola trasgressione, che cosa vuol dire oggigiorno trasgredire? La minigonna, il tatuaggio, i piercing? Ampiamente normalizzati, ormai. Ma allora quando Monsieur Ionesco nel 1950, alle prese con il suo primo testo teatrale, inserisce una lunga e apparentemente inutile didascalia in cui specifica che nel salotto borghese dei signori Smith tutto, dalla poltrona alla pipa passando per i baffi o addirittura il fuoco, è «inglese», che cosa ci sta dicendo?
Certo l’effetto non manca mai, e anche ieri l’eterogeneo pubblico del Vascello, tra radical chic, signore attempate e scolaresche in notturna, si è fin da subito lasciato travolgere dalle potenza dell’opera prorompendo in continui scrosci di risa e applausi; eppure ridurre il teatro dell’assurdo a un gioco comico sarebbe un po’ un azzardo. Ma torniamo un attimo alla prima didascalia: perché è così importante che in casa Smith (il cognome più diffuso dell’isola) tutto sia profondamente ed esageratamente inglese? Varrà la pena, pertanto, ricordare che prima del rock, del punk, della new wave, l’Inghilterra per anni è stata sinonimo di Vittorianesimo, ovvero di affettazione, contegno, aplomb, perbenismo; insomma, di tutta quella ipocrisia borghese che oggigiorno è stata riassorbita e riversata nel mondo fittizio dei social network.
Provate allora a immaginare che invece di un salone inglese, la scena sia un post di facebook, e che al suo interno, anziché frasi di senso compiuto, compaiano solo banalità, idiosincrasie, luoghi comuni, argomentazioni prive di logica, consensi o liti infondate, gioie e dolori ridicoli: vi suona per caso familiare? Benvenuti nel mondo di Ionesco. Ciò cui si assiste, insomma, ne La cantatrice calva è una saturazione del meccanismo, già stritolante, del rito borghese: si parla di tutto ma non si dice assolutamente niente. Ecco allora spettegolare su persone che hanno, in realtà, tutte lo stesso identico nome e quindi impossibili da distinguere una dall’altra; o moglie e marito che si dimenticano di essere tali salvo poi scoprire che vivono proprio nella stessa casa; o addirittura un’accesa discussione in cui si finisce per urlarsi addosso filastrocche, parole prese alla rinfusa o onomatopee.
Ionesco, dunque, rifacendosi a un immaginario tipicamente ironico-satirico (si pensi solo a Rabelais, Sterne o a un più recente connazionale come Tzara) riproduce una forma stereotipata e lascia che sia il suo stesso vuoto di contenuto a farla implodere: un’implosione però che, con perfetto umorismo britannico, avviene in un clima di apparente imperturbabilità. E, per ritornare al Vascello, è questo probabilmente a mancare alla messa in scena di Massimo Castri (scomparso nel 2013, fu la sua ultima regia): fredda compostezza. A prevalere infatti è una visione di insieme un po’ carnascialesca, a tratti ai limiti del macchiettistico, che sicuramente amplifica l’irresistibile comicità delle battute però al tempo stesso ne spegne il gelo latente. C’è quasi tutto, ma manca un elemento indispensabile: l’effetto straniante.
Ciononostante la potenza del testo di Ionesco rimane inalterata, superando più limiti di quanto una recitazione farsesca (la compagnia stabile del Metastasio sembra “italianizzare” un po’ troppo l’opera) o scelte registiche opinabili (perché Mary non dice di essere Sherlock Holmes?) le possano imporre. Tanto che a un tratto, ieri sera, nel tripudio generale di risa, potremmo giurare di aver sentito una sedicenne, più confusa che annoiata, pronunciare a mezza voce fra sé e sé: «Ma non ha senso… È assurdo…!»
Teatro Vascello, Roma – 31 marzo 2015