Lavanguardia americana 1945 – 1980
Ho trovato la sorpresa dell’uovo di Pasqua in una mostra: L’avanguardia americana 1945- 1980.
Il Guggenheim delinea nel vagheggiato immaginario di derivazione nerd lo stato di benessere che ad un evasore fiscale cronico può suggerire una zona franca. Giusto per estremizzare i termini del discorso, al limite del grottesco, il campione intellettuale di stampo medio, parassita del legno ikea della scrivania, celato nel suo atteggiamento misantropico verso la popolazione che si dipana tra locali e centri di province tronfi di glamour e charme, può dare libero sfogo a tantissime attività all’interno di questi veri e propri paradisi dell’arte. A titolo esplicativo ha modo di: visitare una mostra generalmente ben allestita, sgranchirsi l’apparato osseo scongiurando l’atrofizzazione dei muscoli maturata nelle numerose ore trascorse dinanzi al computer, comprare qualche libro tra quelli riposti in finto disordine nei ripiani degli annessi bookshop dal design minimalista, e, se proprio si è in vena di strafare, si offre persino l’occasione per gironzolare tra le vie di una città d’arte. Insomma il Guggenheim, che sia quello di Venezia, di Berlino oppure di Bilbao è sempre un’isola felice. Ho questa convinzione quando mi dirigo, durante una torrida giornata primaverile, nel Palazzo delle Esposizioni di Roma dove, sotto la direzione firmata Guggenheim, si sta svolgendo una mostra sull’avanguardia americana del periodo 1945-1980.
L’intento è di illustrare le correnti più significative dello sviluppo dell’arte americana in un periodo di grandi trasformazioni nella storia degli Stati Uniti: anni segnati dal trionfo del proprio modello economico con conseguente miglioramento del tenore di vita della popolazione, a cui però si contrappone uno scenario di sanguinari conflitti internazionali.
Il primo step è costituito dagli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, quando si afferma l’espressionismo astratto e l’attenzione anche straniera si concentra su una cerchia di artisti attivi a New York. Qui trovano spazio, tra le altre, le opere di Jackson Pollock, Ashile Gorky e Frank Stella dove l’emotività dell’artista viene espressa senza ulteriori passaggi dal subconscio.
Successivamente sono esposte tele appartenenti alla pop art: la spontaneità si trova ad essere declassata dal prodotto utile al consumo, la cultura popolare diviene arte. Un posto di rilievo ha la monumentale tela di Rauschemberg dal titolo Barge. E’ poi la volta dell’arte concettuale e del minimalismo, entrambe correnti attente al ruolo della meditazione nell’artista e del rapporto tra lo spettatore, l’opera ed il contesto nel quale quest’ultima viene inserita. Infine all’ultimo padiglione troviamo delle opere iconografiche del fotorealismo degli anni settanta e ottanta, con tele iperrealiste dove l’occhio nudo difficilmente scorge le differenze con un’ipotetica fotografia.
Termino il percorso con un’occhiatina al bookshop che nulla ha da invidiare a quello del Guggenheim di Venezia e sono di nuovo in via Nazionale, nella calura fuori stagione resa opprimente dallo smog. Il viaggio nell’isola felice per oggi posso considerarlo terminato, non mi rimane che consigliarlo a voi altri.