Lamentarsi in bilico fra realtà e apparenza
Bisordi porta in scena 'Kvetch' di Berkoff
Raramente, quando parliamo, diciamo davvero ciò che vogliamo dire. Il più delle volte, infatti, il linguaggio è un mezzo per occultare la verità, per negare ciò che in realtà si afferma, o viceversa. Ma cosa succederebbe se le parole pronunciate corrispondessero davvero a quello che pensiamo? Questa sembra essere solo una delle tante fratture rintracciabili nel testo di Steven Berkoff, Kvetch, portato in scena da Giacomo Bisordi.
Potremmo aggiungerne delle altre, in effetti: quella fra ciò che si è e ciò che si sogna idealmente di essere; o ancora, fra ciò che si vuole davvero e ciò che la società impone, in modo più o meno subdolo, di dover volere per salvare le apparenze (una famiglia felice, un lavoro soddisfacente, una vita sociale appagante). Al centro di tutto, però, c’è «kvetch» – verbo inglese, derivato dallo yiddish, che sta per «lamentarsi» – la cui definizione campeggia già proiettata sul fondo del teatro Cometa Off, come monito iniziale dello spettacolo che ne sottende fin da subito le intenzioni.
Tutto inizia quando il nevrotico Frank (Daniele Biagini, impareggiabile in scena, per carisma e precisione) invita a cena il suo amico Hal (Vincenzo Giordano), ragazzotto dimesso e neo-separato. Abbigliata «a lutto per la propria vita» (costumi Anna Missaglia), ecco allora la famiglia ebrea di Frank riunita attorno al tavolo di un soggiorno funereo e claustrofobico (scene Paola Castrignanò) irradiato da luce fredda e allucinata (luci Marco D’Amelio): c’è Donna (Cristina Poccardi), la moglie nervosa e repressa di Frank e l’irresistibile suocera (Ludovica Modugno) anziana e petulante, che rutta e si scaccola a tavola. Neanche il tempo di sedersi che subito iniziano a piagnucolare: tutti sono frustrati per quello che non sono e vorrebbero essere, tutti dicono quello che non pensano e poi si confessano in una serie di a parte ascoltati da nessuno se non dal pubblico, ma non rivolti al pubblico.
Ed è proprio qui la genialità di Berkoff, nell’accentuare l’ambiguità fra realtà e apparenza senza bisogno di squarciare la quarta parete: non si tratta infatti di un gioco meta-teatrale in cui i personaggi si rivelano in quanto fittizi, anzi, la confessione avviene al livello più intimo del personaggio stesso. L’illusione teatrale, quindi, non si spezza, ma al contrario, viene amplificata.
Ecco allora che la “tranquilla” cena familiare non sarà che il pretesto per penetrare la mente dei personaggi, dar sfogo al dipanarsi delle loro paure, angosce e ansie di inadeguatezza, che si scontrano con l’ideale di una cena “come-dovrebbe-essere” secondo convenzioni condivise: uno scarto che si fa metafora potente del contrasto fra una vita vissuta nell’apparenza soltanto per salvaguardare l’ordine esterno e un’altra, più pulsionale e sotterranea, vissuta nella mente e soffocata in nome della rispettabilità sociale.
Ma quegli impulsi repressi sono destinati a emergere con violenza inaspettata: Bisordi fa esplodere il lato più grottesco del testo di Berkoff in gesti esasperati, espressioni facciali dilatate all’inverosimile, tempi comici di precisione chirurgica e soprattutto in una recitazione sopra le righe, cucita addosso a un gruppo di attori infaticabile, innervata dal linguaggio esplicito e irriverente del drammaturgo inglese, cui si unisce quell’ironia auto-dissacratoria tipica della cultura ebraica.
Smettere di fare kvetch, però, sarà possibile soltanto tornando all’origine, in quel salotto familiare eppure traumatico in cui l’a parte finalmente coinciderà con la battuta, il detto con il pensato, la realtà con l’apparenza; con conseguenze irreversibili ed esilaranti.
Ascolto consigliato
Teatro Cometa Off, Roma – 10 marzo 2016