Quasi sicuramente il film più atteso di questa Berlinale. Quasi un terzo atto di una trilogia che, a questo punto, potrebbe diventare infinita per l’autore texano. Terrence Malick ha il volto di Christian Bale e l’animo di chi sente il bisogno di andare incontro al suo destino. Vaga disperso mettendo insieme i pezzi della sua vita, trascinandoci dentro l’ex moglie Cate Blanchett e l’amante Natalie Portman, luce ed ombra della sua esistenza. Un film dai profondi estremi che vede nella dualità il suo respiro, una Los Angeles spietata che implacabile inghiotte il protagonista e che dalla stessa natura viene punita, ed un’erranza sentimentale che diventa spirituale quanto mistica.
Si parte da The Tree of Life, si passa per To the Wonder e si giunge (per ora) a Knight of Cups. Un film che, ancora più degli altri due, al di là delle incredibili qualità tecniche – Emmanuel Lubezki su tutti – deve essere introietto e sperimentato, per chi vuole cercare il rapporto stesso con il protagonista e con l’autore. Sembra proprio che Malick faccia i film per trovare viaggiatori alla ricerca dello stesso senso (della vita come del cinema) che personalmente vuole ancora trovare.
Servirebbe allo spettatore forse un ennesimo slancio di fede, un piccolo sforzo per andare oltre la semplice esperienza visiva e permettergli di toccare l’anima nel profondo. Non sempre è così facile, nemmeno per chi la rappresenta. I personaggi di questi tre film avvertono un bisogno costante di sentire che sono vivi, che ciò che sta loro accadendo non sia soltanto un sogno, bello o brutto. Ma allora, a che gioco stiamo giocando?
A Malick non interessa più la realtà, forse nemmeno la fede o neanche l’immagine delle cose che rappresenta. Ecco allora il bisogno disperato di alzare gli occhi verso l’alto in cerca di risposte, sollievo. L’amore di cui parla Malick è vivere a pieno il presente e cerca di farcelo immaginare. Ma ciò nella vita (e soprattutto al cinema) è impossibile; i ricordi e le debolezze lo trascinano reiteratamente in una spirale di nonsenso, in quel vuoto di quel cielo quale non si vede né inizio né fine.
È un cinema molto complesso e di un’ambizione, quanto irritante nel suo voler realmente tentare di colmare lo spazio presente nel nostro personale vivere, mostrando l’assoluto per riappacificarsi cui riappacificar(si). Film ancora più ingiudicabile dei precedenti, che da una parte si mostra sempre più nullo e vacuo e dall’altra (ri)definisce un immagine sublime sull’apocalisse del reale e la sua fuga infinita. Al prossimo capitolo, alla prossima rivelazione (?).