Esiste un momento di sospensione alla fine di ogni spettacolo, una sorta di quiete prima delle tempesta: come se due eserciti fossero schierati lungo la frontiera e aspettassero solamente il primo sparo. Le luci si abbassano, gli artisti tirano il fiato e l’aria freme nell’attesa della risposta del pubblico. Ieri sera, però, all’Argentina, in quel preciso istante che precede il primo applauso, una voce ha suonato in levare: «Bello!».
Basterebbe quel «bello», pronunciato inavvertitamente, d’improvviso, con una certa incontenibile meraviglia, a dare la misura del King Arthur di Motus e Sezione Aurea. Uno stupore che, come al netto di ogni perplessità, ha sentito l’esigenza di esprimere subito la sua sincera approvazione.
La scommessa di Motus, in effetti, era azzardata: rappresentare una dramatick opera (connubio britannico seicentesco tra lirica, teatro e danza), scritta da due artisti barocchi inglesi – il poeta Dryden e il compositore Purcell –, su un ciclo arturiano poco noto (non quello fantastico di Camelot ma quello mitopoietico delle lotte fra Bretoni e Sassoni), il tutto per un pubblico alquanto impreparato in materia. Un’operazione, dunque, dalla complessità – e lo studio alle spalle – notevole, cui si aggiunge, inoltre, una rivisitazione scenico-drammaturgica che tenta di applicare uno sguardo caleidoscopico all’opera, mescolando insomma spirito barocco e performatività contemporanea.
Grandi alberi compongono la scena accogliendo i musicisti di Sezione Aurea in un intimo boschetto di spartiti intrecciati di edera. Alle loro spalle si staglia una grande parete che mostra e cela l’azione. In basso infatti si nasconde una caverna, ventre caldo della storia di cui il pubblico può cogliere soltanto gli umori (luci Alessio Spirli e Marie-Sol Kim) senza vedere cosa accada al suo interno; per seguire la «narrazione», invece, è costretto ad alzare lo sguardo, dove un occhio di luce restituisce sulla parte alta della parete i gesti negati (una telecamera riprende dal vivo gli attori – Andrea Gallo). Questa visione impedita, differita e traslata costituisce il nucleo dell’intero spettacolo.
I registi Daniela Nicolò e Enrico Casagrande si concentrano sulla figura di Emmeline, ragazza cieca che nella favola di Dryden rappresenta l’oggetto della disputa tra il sassone Oswald e il bretone Artù: la sua percezione sinestetica del mondo è sineddoche scenica nonché riflesso drammaturgico (Luca Scarlini). In questa wunderkammer tutta moderna, difatti, Silvia Calderoni e Glen Çaçi diventano – in video e dal vivo – gli alter-ego di Emmeline e Artù, proiezioni possibili e parallele di una guerra d’illusioni; perché, al di là della complessità qui impossibile da riassumere, è importante notare come l’intera rilettura della compagnia teatrale verta attorno l’idea shakespearianamente inglese di illusion-delusion, vale a dire di come una percezione alterata possa lasciar maturare convinzioni ottuse e testarde.
Ecco allora che il King Arthur di Motus assume una valenza socio-politica non indifferente: pur non rinunciando ma anzi valorizzando – grazie alla rivisitazione di Sezione Aurea (direzione di Luca Giardini) – il materiale originale di Purcell, l’opera mostra una selva labirintica e onirica di falsi credo in cui l’uomo si aggira e agisce come incosciente, per risvegliarsi infine – incredulo eppur responsabile – in una realtà fatta di macerie.
Denso di richiami, carico di stimolazioni sensoriali, ricco di preziose allegorie, lo spettacolo riesce a far breccia nel pubblico nonostante la – forse cauta – condensazione del lavoro in settanta minuti. Qualcosa sfugge e probabilmente è un peccato, però a rimanere è soprattutto la sensazione di aver penetrato un mistero antico che risuona sorprendentemente contemporaneo.
Teatro Argentina, Roma – 18 ottobre 2014