Olocausto e ironia tragica
Lenz riscattano il nulla che fu dall'usura della memoria
Si parla talmente tanto di Olocausto che ormai quella del giorno della memoria comincia a diventare una ricorrenza lisa, logorata dall’abitudine, da un dovere morale che rischia di svuotarne l’importanza storica. Perché – è innegabile – di tragedie programmatiche ne è intriso tutto il Novecento: Stalin, Mao Zedong, Kim Il-sung, Pol Pot, l’elenco purtroppo è molto lungo. Sarebbe raccapricciante pensare di stabilire quale sia stata la peggiore, eppure è accaduto: l’Endlösung nazista (la soluzione finale) nell’immaginario collettivo rappresenta il male assoluto. E quando c’è un male assoluto ecco che tutti gli altri mali ci sembrano meno gravi. It’s politics, baby. Tanto che settant’anni dopo il presidente della cosiddetta più grande “democrazia” del mondo con grande nonchalance emana veti a sette stati a maggioranza musulmana (per la lista ringraziamo il suo predecessore bombardiere) e afferma che la tortura dopotutto è un mezzo efficace. Ma mica sarà un nuovo Hitler! Hitler non rispettò certo il programma per cui venne eletto “democraticamente” – oppure sì?
L’unica morale di questa triste storia è che, alla faccia della memoria, quel che avevamo da imparare non lo abbiamo imparato.
Ma il punto non è se celebrare o non celebrare il giorno della memoria, o tantomeno se istituire il giorno del genocidio armeno, della strage dei Tutsi o della distruzione del tempio di Gerusalemme. Non basterebbe un calendario. Il punto è che mitizzare non è mai servito a nulla. E mitizzare la tragedia collettiva è quanto di più anti-storico – nonché irrispettoso – possa esistere.
Per questo la creazione della storica compagnia Lenz sull’internamento ad Auschwitz di alcuni bambini di Parma è particolarmente interessante. Perché in Kinder non accade nulla.
Ci spieghiamo meglio.
Maria Federica Maestri e Francesco Pititto hanno compreso bene che l’Olocausto non è “qualcosa” da celebrare, al contrario, è un silenzio da osservare, un’assenza, è l’incomprensibilità di un annullamento totale: di chi ne è stato vittima e di chi lo ha eseguito; e che non a caso è potuto “riuscire” solo grazie a una perfetta, deresponsabilizzante macchina burocratica (cfr. Le ragioni del male di H. Arendt).
Pertanto, se l’Olocausto rappresenta il grande Nulla che divora sé stesso, il concetto di spettacolarizzazione, anche solo nella sua accezione letterale, non può che venire meno. Ed è proprio per questo che Kinder – a nostro avviso – non può essere considerato uno “spettacolo”, perché ciò che accade in scena è, in un certo senso, assolutamente marginale. Ciò che conta è in ciò che manca.
Nella spoglia sala Majakovskij il pubblico, assiepato in gradinate sul lato lungo, ha di fronte a sé, innanzitutto, una spessa cortina di plastica trasparente. Come a dire, lo scarto è irrisolvibile: dobbiamo osservare e capire che non si può più intervenire.
Oltre la tenda, poi, a terra, una lunga fila di lavabi, bianchi di ceramica, bianchi di lapide, in una duplicità, infausta, che ricorda l’estetica pratica e mortuaria delle opere di Ai Weiwei (cfr. Coffins). Qui giacciono i bambini, sospesi in un sonno di limbo che è morte e incoscienza. Oltre ancora, infine, sei letti a castello (si ricordi che lager sta per “accampamento”), in uno scheletro essenziale, grigio, freddo, metallico, che sa di gabbia.
Accadrà poco, quasi nulla. I bambini saranno destati ancora una volta, infestando questo luogo che è già fine, che è già assenza, e torneranno a scambiarsi domande semplici, essenziali: «Sei qui da solo?/Da dove vieni?/Perché sei qui?»; ma nulla cresce davvero, impossibile sviluppare un rapporto, prevale la stanchezza, il senso di sconfitta, qui la storia è annullata. Così come le lettere di una madre internata che invano insiste a scrivere al questore di Parma perché i suoi figli proseguano gli studi, vengano visitati, possano sostenere gli esami. A illudersi che un avvenire sia ancora possibile. Come scrive Matteo Brighenti su PAC è «una partitura minimale di ripetizioni con scarti minimi, a tracciare ore qualsiasi di giorni qualsiasi, tanto non fa differenza, la loro è una fine segnata dal principio.»
Se il tempo è fermo è perché il futuro è negato. E gli spettatori lo sanno bene. Al di là del dato strettamente biografico, infatti, o dell’estetica di Lenz – essenziale, ruvida, lacerata –, Kinder è composto secondo il principio dell’ironia tragica, quell’espediente narrativo per cui essendo l’epilogo di una vicenda già rivelato, tutto ciò che avverrà, triste o felice che sia, sarà raggelato dalla certezza della fine. L’ironia tragica inchioda qualunque presente narrato – a teatro diremmo “evocato” – perché proponendolo lo nega.
Maestri e Pititto tuttavia non “utilizanno” l’ironia tragica, la mettono a sistema. Negando cioè qualunque rappresentazione, concentrano l’intero lavoro su ciò che non si può mostrare; non tanto per discrezione ma proprio perché l’Olocausto è un vuoto: con esso non si trattò più di uccidere ma di negare la vita.
Questa è la vera lezione storica, apolitica, umana, dell’Olocausto, e Lenz ce la restituiscono con lucidità e abnegazione, fino al rischio di rinunciare alla riuscita teatrale. Nessun pathos, nessun mito, un pesante vuoto e poi il silenzio: a ricordarci che una voce un tempo esisteva.
Da domani sarà tristezza, da domani.
Ma oggi sarò contento,
A che serve essere tristi, a che serve.
Ascolto consigliato
Lenz Teatro, Parma – 27 gennaio 2017
In apertura: Foto di scena ©Francesco Pititto
Crediti ufficiali:
KINDER (Bambini)
Testo e imagoturgia Francesco Pititto
Installazione | Elementi Plastici | Regia Maria Federica Maestri
Musica Andrea Azzali
Direzione Musicale voci bianche Ars Canto M° Gabriella Corsaro
Consulenza Storica Marco Minardi
Interpreti Valentina Barbarini
con Pietro Anelli, Samuele Bellingeri, Matteo Castellazzi, Marcello Costa, Martina Gismondi, Agata Pelosi, Alessandro Poli, Cloe Teodori, Anna Giada Vaccaro
Luci Alice Scartapacchio
Assistente Marco Cavellini
Produzione Lenz Fondazione in collaborazione con ISREC