Julieta è una donna indecisa e impulsiva. Nonostante sembri voler seguire il proprio compagno in Portogallo, l'incontro fortuito con un'amica d'infanzia di sua figlia stravolge qualunque piano per il futuro. Tornata a casa, Julieta decide di rinchiudersi nuovamente nel passato doloroso che aveva deciso di rifuggire. E con il classico espediente cinematografico della lettera, tutta la sua dolorosa esistenza ci viene raccontata con l’incedere classico del melò. O forse, meglio, della tragedia. La tragedia classica, intesa come quella greca, in cui le divinità prefigurano un destino oscuro per la protagonista per il quale lei si sentirà sempre in colpa fino a consumarsi. Il senso di colpa profonda, di matrice hitchcockiana, è alla base di questo thriller melodrammatico di Almodóvar.
Julieta segna il ritorno del regista spagnolo a un cinema più serio, che richiama molte opere della sua filmografia nei temi, nei toni, nei modi. Un film composto, senza troppi fronzoli, che fa un uso piuttosto classico del linguaggio cinematografico e riesce a non annoiare nella composizione di una vita che continuamente si infrange contro gli scogli del destino. A interpretare Julieta, Almodóvar chiama due attrici diverse: Emma Suaréz e Adriana Ugarte, abilmente contrapposte nell'impostazione del regime interpretativo. L'una è tanto solare e aggressiva tanto quanto la seconda è spenta al limite dello zombie. C'è un punto di contatto tra le due ed è la scena in cui le donne vengono scambiate sotto il movimento di un asciugamano: una mossa inaspettata agli occhi di chi guarda il film e viene rapito dalla vitalità della giovane Julieta, entra nella storia, la vede morire davanti ai suoi occhi e aspetta il momento in cui la donna ricominci a vivere. Ma questo non avviene mai e la giovane Julieta diviene la nuova, cadaverica, Julieta.
Lo sguardo autoriale di Almodóvar, che con questo film ha deciso di tornare al Festival del Cinema di Cannes, è però molto ristretto. Tutti si riassume in poche, abili mosse, preso in prestito dai grandi maestri della storia del cinema: primo fra tutti Hitchcock. La finzione cinematografica e il debito con la tragedia greca vengono espiati nell'inquadratura iniziale: una tela di un rosso accesso che ricorda un sipario teatrale si scopre essere il vestito di Julieta. Come se il regista ci dicesse che la rappresentazione comincia nel sollevarsi del sipario, ma al tempo stesso è già finita perché è la vita, quella senza energia di Julieta, che deve prenderne il posto. Un espediente secco, asciutto, definitivo: il linguaggio del film, nonostante i colori accesi, assume toni mortiferi per riflettere lo stato della protagonista. E da lì difficilmente si muove, anche quando abbiamo a che fare con la giovane Julieta. Lo spirito vivace che contraddistingue la poetica del regista spagnolo qui abdica in favore del lato oscuro, quello della colpa e dell'auto-commiserazione.
In definitiva, un po’ perché presentato a Cannes, un po’ perché adattamento di tre racconti di Alice Munro, questo Julieta non sorprende e non delude, ma si lascia vedere agilmente. Sicuramente è apprezzabile, almeno per chi scrive, l'allontanamento dalla deriva macchiettistica che con il film precedente Almodóvar sembrava aver imboccato in favore di un ritorno verso i toni più seri e malinconici che ne hanno fatto la fortuna.