In una delle tante pagine memorabili de I fratelli Karamazov Ivan incontra il Diavolo. Dostoevskij mette in scena, perché suprema arte teatrale percorreva quella scrittura densissima capace di costruire momenti assoluti nel chiuso degli ambienti dei suoi romanzi, il confronto, allucinatorio e totalizzante tra Ivan Karamazov il grande ateo, l’ultimo eroe intellettuale affacciato sulla vertigine del nulla reso immortale da Dostoevskij e quel qualcosa che potrebbe essere un fantasma e un’allucinazione, una parte di sé, ma quella più «ripugnante e stupida». O Satana. O la risposta all’unica domanda cui Ivan non sa rispondere: «Dio esiste o no?».
Alberto Oliva (Ivan) e Mino Manni (Il diavolo) portano in scena al Teatro Belli quelle che sono alcune delle pagine decisive della cultura romanzesca europea in questo Ivan e il Diavolo, nuovo episodio di una ricerca intorno all’opera dostoevskijana che già ha suggerito il nome del loro sodalizio, I demoni, e li ha visti portare in scena pagine famosissime da I demoni e Le notti bianche. A segnare la centralità di questo spettacolo nella sua poetica, il giovane regista Alberto Oliva sceglie di salire lui stesso per la prima volta sul palco, per interpretare Ivan di fronte al consumato mestiere di Mino Manni.
Un giovane intellettuale e una vecchia volpe, la verità delle biografie che salgono sul palco si interseca perfettamente con l’idea di messa in scena, molto accurata dal punto di vista testuale, dell’episodio chiave della vicenda dei Karamazov. Il diavolo cui Ivan dà ripetutamente dell’«imbecille», è un guitto, entra in scena vestito come un illusionista da avanspettacolo, ricorda più il Woland de Il maestro e Margherita che il Mefistofele faustiano. Del resto non è serio un Diavolo che si lamenta dei reumatismi, e Oliva/Ivan lo vede così: estroverso e dall’umore mutevole, gli concede svolazzi pop, lo richiama solo saltuariamente alla teologia, ne prepara in maniera ondivaga la resa dei conti sulla teodicea, sul senso del male e della sofferenza.
Lo spettacolo si giova di una messa in scena curata per quanto semplice, raccolta in una stanza da bagno in cui Ivan Karamazov scivola velocemente in un delirio in cui il doppio si mostra con qualche effettaccio da diavolo d’operetta, si nasconde tra le pieghe delle quinte, cambia vestito, è illuminato da luci rosse o verdi. L’interpretazione di Mino Manni è magnetica e totalizzante, caricata e varia nelle sue differenti tonalità. Forse proprio nel voluto squilibrio tra i due attori in scena, stride qualcosa. La magniloquente presenza di questo Diavolo schiaccia Ivan più di quanto il testo vorrebbe, soprattutto quando nella seconda parte le schermaglie lasciano il posto al peso della filosofia e alla profondità di un’interrogazione che è pur sempre farina di Ivan Karamazov, uno dei personaggi più grandi nella gigantesca galleria di esseri umani scolpita da Dostoevkij. E un Karamazov non smette di essere un Karamazov, è grande per patronimico, per diritto del génos, non gli si addice l’inferiorità. Fosse anche inferiorità al signore degli inferi.