In un ormai morituro palinsesto televisivo andava in onda un programma di Giovanni Minoli – La storia siamo noi – che, fin dal titolo, collegava concettualmente passato e presente, spingendo a sentire in “noi”, appunto, l’onere della memoria, imprescindibile per costruire e costruirci un avvenire.
Poi passano sedici anni e il programma non va più in onda, sedici anni di lenta agonia in cui mutano le condizioni, il contesto: il presente rimane schiacciato tra un passato somministrato in pillole quasi fosse un varietà, e un futuro redivivo che è già sempre qui, come un morto che cammina.
Italianesi di Saverio La Ruina ci mostra che la memoria – la storia di un uomo, di un popolo – deve essere esercitata, altrimenti il primo che passa rischia di portarla via, o ancor peggio, di sostituirla con un lungo e omertoso brusio: interruzione delle trasmissioni.
Lo fa da solo, in scena, entrando piano e chiudendo con attenzione la porta dietro di sé. Vestito come un uomo perbene, ha solo una sedia di ferro come unico bagaglio da trasportare e la gravità di un animo senza posa. In questo modo darà forma al suo personaggio italianese (così gli italiani, e i calabri come lui, che furono rinchiusi nei campi di concentramento albanesi dal regime comunista dopo il ventennio fascista) modellandolo come una scultura. Occorrono tempo e dovizia, anche per i nomi – che pur arriveranno – o per gli episodi della propria vita: perché non siamo in una cronaca deviata in fiction, qui niente è definibile in un format netto e rassicurante; questa è la sua vita, ed è incerta, proprio come l’andatura zoppicante, indelebile “ricordo” delle guardie del campo e della spietatezza della realtà.
Fu straniero in Albania per decenni sotto un regime totalitario, e straniero poi in Italia, quando negli anni Novanta potrà tornare a visitare quel posto speciale di cui il padre gli narrava prima di esser deportato. Ora il regime è caduto e può andare a riabbracciarlo nel nuorese, in una Italia dove tutto si può fare e sono liberi tutti; ma appena si arroga il diritto di spalancare le braccia il passato gli gira le spalle obbligandolo a un oblio forzato.
Con la libertà d’altronde bisogna saper trattare, specialmente con quella libertà che usa la tolleranza per creare ghetti e il falso permissivismo per demandare ai propri compiti. E allora, che distanza c’è tra l’Albania e l’Italia per un italianese, per il futuro dei suoi figli? Quella di un cielo diviso a spicchi in cui le proporzioni non tornano. E Tonino lo sa, perché è un sarto, il primo sarto al campo di concentramento: Se fai lo sbaglio, lo sbaglio te lo porti dall’alto fino in basso.
Una scrittura puntuale e calibrata, un dialetto calabro che sacrifica la comunicabilità in virtù dell’espressività di una vita e un disegno luci (Dario De Luca) che sagoma le ombre evidenziando il peso della storia: Italianesi ci mostra la stessa scena, ci fa sentire le stesse voci di una storia scomoda di cui noi siamo fatti.
(Foto ©Angelo Maggio)