Sapreste descrivere il risveglio? Quel rapido rincorrersi di attimi che ci risucchia dalla misteriosa estasi onirica per gettarci violentemente (e ingiustamente) nella dura realtà quotidiana. Ecco, immaginate l’esatto opposto: immaginate che una forza repentina vi prelevi dal mondo per lasciarvi cadere tra le poltrone del Teatro Belli, mentre, sperduti e agitati, i vostri occhi vengono afferrati da un lampo di luce che acceca la mente e trascina corpo e sensi in una dimensione asettica, astratta, inesistente.
È il mondo di It, Wound, Killer, Now (del drammaturgo Philip Ridley, con messinscena di Luca Fiamenghi, che chiude la rassegna Trend nuove frontiere della scena britannica): lì al centro del palcoscenico, come la tela mancante di un’invadente cornice bianca retroilluminata da monocromie luminose. Un luogo piccolo – a misura d’uomo e vuoto, dove quattro personaggi, privi di passato, nome e identità, si susseguono in altrettanti monologhi.
Compaiono dal nulla dell’oscurità, come immagini riempite di carne, e si mostrano mentre cadono vittime della loro supponenza fallimentare, della loro delirante solitudine, e delle loro perdenti ambizioni. A cominciare da un impiegato (Luca Catello Sannino) che, in seguito all’esplosione di una bomba, si trova bloccato sotto le macerie. È qui che siamo, all’interno di una mente in stato di shock: in quello spazio di sospensione temporale dove la ragione e la consapevolezza sono strappate dalla coscienza, dove persino il chiarore di una lampadina può scatenare spaventose allucinazioni, dove ogni oggetto appena toccato, ogni gesto appena compiuto, diventano ricordi sconosciuti e indefinibili, tracce impresse nelle parole.
La parola, cercata e dimenticata, e, al limite della logorrea, pronunciata, è lei l’impulso vitale di queste apparizioni. Lo è per una svampita e maligna visionaria (Alice Arcuri) dalla casacca alla marinara e i leggings scuri, che nasconde sotto stupefacenti fantasie un autolesionistico disturbo ossessivo compulsivo. Lo è per l’eccentrico killer-Mefisto (Michele Maganza), che, sotto l’elegante abito da venditore di assurdo determinismo, porta le cicatrici di un’infanzia infelice, d’incontri sbagliati, e di un’aggressività grottesca e dirompente. Lo è per un imbarazzato ragazzo ancora Sannino , stretto in quel suo bigotto papillon che chiude la camicia fino all’ultimo bottone, proteggendo e isolando, come una corazza, dalla crudeltà dell’ipocrisia e dei pregiudizi altrui, un ritardo mentale, uno sguardo ingenuo, un amore innocente e non-tollerato per un altro uomo.
Attraverso pochi e rapidi sketch di apparente leggerezza estetica ed espressiva, regista e interpreti danno vita, con sapiente equilibrio e puntualità, a un meta-linguaggio di contrasti tragicomici, che ci consente di penetrare le perversità della psiche e della società – per guardare da dentro, con occhio lucido e spietato, senza mai cadere nello scontato e patetico moralismo, quei disagi, quelle debolezze, e quelle ferite sconce dell’essere umano che la miopia (in)civile, ormai, non vuole più vedere.
Teatro Belli, Roma 16 novembre 2014