Che cos’è quell’It che segue (follows)? Forse un pericoloso mostro come l’It del film tratto dal romanzo di Stephen King, il clown assassino che, ancora a distanza di anni, non cessa di imporsi nell’immaginario horror? Niente di tutto questo. Si tratta comunque di un qualcosa di tutt’altro che rassicurante, simile al principio di una minaccia di cui sarà difficile liberarsi.
L’It in questo caso corrisponde infatti a un’indecifrabile entità che insegue con inquietante lentezza la sua vittima assumendo l’aspetto delle persone vicine a questa, come i suoi amici e famigliari. Una situazione in cui ha la sfortuna di trovarsi la diciannovenne Jay (Maika Monroe) dopo aver fatto l’amore con Hugh, un ragazzo che ha da poco cominciato a frequentare. Quella di It Follows è infatti una maledizione che si trasmette attraverso il corpo: la vittima ha la possibilità di liberarsi di questo terrore contagiando a sua volta un’altra persona con un rapporto sessuale.
Il regista David Robert Mitchell, qui alla sua seconda prova dopo l’acclamato The Myth of the American Sleepover (2010), riesce soprattutto nella prima parte a trasmettere allo spettatore il terrore provato da Jay e i suoi amici con ammirevole sottigliezza: ciò che il più delle volte spaventa, o perlomeno inquieta profondamente, non è tanto (o non solo) quell’It che “pedina” con intenzioni mortali diventando ogni volta una persona diversa, bensì l’atmosfera sinistra del film. Come un radar, la macchina da presa individua il lato più cupo della provincia americana (i tranquilli sobborghi residenziali di Detroit, in questo caso) per poi riplasmarlo e intensificarlo, ad esempio optando per ambigui movimenti di macchina che sembrano corrispondere a soggettive di uno sguardo tanto misterioso quanto letale.
In molte inquadrature, inoltre, si ritrova l’eco della malinconia placida e tetra al contempo di molti quadri di Hopper: il senso di isolamento soffuso, quasi allucinato dei capolavori del grande pittore americano è infatti riscontrabile nella tristezza spettrale di molti campi lunghi, e si insinua in modo alienante anche nei volti della ragazza e del suo gruppo di amici. Quell’agghiacciante It si configura infatti come metafora delle innumerevoli minacce e profonde insicurezze che non cessano di tormentare gli adolescenti, dell’ambiguo rapporto con le loro famiglie, dalle quali, spesso, desiderano allontanarsi (non a caso la cosa che insegue le vittime assume anche le sembianze dei loro genitori o parenti).
Una serie di idee e trovate che però nella seconda parte vengono soffocate da scelte non particolarmente felici: il regista si concentra fin troppo sulla storia, finendo così per mettere quasi del tutto in disparte quell’aura in bilico perfetto fra reale e fantastico che aveva brillato soprattutto nelle prime sequenze. Lo stile è perciò costretto a lasciare il posto a un eccesso di dialoghi e a un accumulo maldestro di eventi, come il tentativo da parte della protagonista e dei suoi amici di escogitare un metodo per liberarsi dell’invisibile maledizione.
Nonostante queste sbavature, Mitchell dimostra comunque di aver assimilato perlomeno parzialmente la lezione di maestri dell’horror come Carpenter e Craven nel considerare la provincia americana non un'”immagine” da contemplare passivamente, bensì una pagina bianca da riempire di umori invisibili e sottili, ma profondamente traumatici.