Io, Cinna – Accademia degli Artefatti
Ancora prima di entrare in sala, scopriamo ben presto, seppur indirettamente, come l’Accademia degli Artefatti voglia introdurre noi spettatori a Io Cinna (quarto capitolo della pentalogia I, Shakespeare curata dal regista Fabrizio Arcuri).
All’ingresso, infatti, degli addetti consegnano a ciascuna persona un foglio bianco e una penna nera. Nessuno o quasi, molto probabilmente, chiede il motivo di questo «gesto» inaspettato, lasciando che sia lo svolgimento dello spettacolo a chiarire il tutto. Ci si domanda che cosa questi due oggetti abbiano a che fare con Io Cinna, riscrittura del Giulio Cesare di Shakespeare firmata dal drammaturgo inglese Tim Crouch, in cui il poeta latino, ucciso al funerale di Cesare, torna in vita per riproporre e riscrivere i fatti salienti della sua esistenza, assumendo così un’importanza maggiore rispetto a quella che ha nel testo.
Il palcoscenico è denso di cose, di elementi: un grande schermo, un ragazzo tranquillamente seduto che controlla un pc, una scrivania, una piccola poltrona con un foulard. Poco più avanti, quasi a segnare la scia che divide il palco dagli spettatori, l’elemento più inquietante: il perimetro disegnato con del gesso bianco di un uomo disteso, il classico “segnale” che traccia il punto in cui è avvenuta la morte di una persona. Quella di Cinna, appunto. È un luogo desolato, il cui aspetto ha come assorbito tracce di una solitudine pesante che si esprime in modo distratto e disordinato, ma potente. E lo schermo che si accende sullo sfondo – e che dà inizio allo spettacolo – conferma tale impressione: a destra un video di un carro armato fermo ma vigile, a sinistra, in bianco e nero, un ragazzo come infastidito da altre presenze.
Eccolo Cinna (Gabriele Benedetti), arriva sul palco quasi come un getto. Il protagonista – bretelle, canottiera, pantaloni corti e scarpe pesanti – è la sovreccitata versione umana della sentita desolazione del luogo. È un personaggio nato dalla penna di Shakespeare che, però, parla con la voce e l’«atmosfera mentale» di una creatura letteraria novecentesca, come Svevo o Bukowski, provata dalla consistenza devastante della vita e del fallimento, ma non priva di (bislacca) energia. Ed è venuto per riscrivere la propria vita – dunque, la propria morte –, per mettere in scena il fallimento degli intellettuali in una società che non sembra avere molta voglia di contenerli al suo interno.
Scrittura e riscrittura, appunto: ecco svelato il mistero del «binomio» foglio + penna. Quasi da subito Cinna, come se volesse infettarci con la sua arzilla disperazione e «inutilità» di poeta, ci obbliga a interagire. Come? Scrivendo: sia quello che dice lui, sia lasciando «libera» la nostra «immaginazione». A un certo punto, infatti, egli chiede di scrivere il nome del nostro paese, di chi lo governa (!) e un aggettivo che sintetizzi il tutto (!!!). In questo modo, con un impeto di sana provocazione, viene messa in campo una quantità notevole di dimensione pubblica e politica, caratteristica confermata dai video di aggressioni e scontri violenti con le forze dell’ordine.
E il poeta, una volta che ha riscritto, rivisto e rivissuto la propria vita e morte, si sente come liberato di un peso e, «soddisfatto», può andarsene.
E a noi spettatori rimane addosso la sua disperazione beffardamente arguta e ironica, la sua follia irrisolta e ronzante, ma soprattutto l’amara consapevolezza di quanto certe parole come «Repubblica», specialmente in questo Paese, siano state ormai svuotate del loro significato.