Intervista a Cristiana Minasi
Riflessioni spensierate sul teatro, sul vuoto e sulla libertà nell'errore
Premessa, ingombrante ma fondamentale. L’intervista è l’estratto di una chiacchierata informale e costruttiva più ampia con la co-regista, co-autrice e co-interprete Cristiana Minasi della compagnia Carullo-Minasi (di cui abbiamo recentemente seguito gli spettacoli: T/Empio, critica della ragion giusta e Due passi sono). L’incontro è pensato come momento di riflessione sui temi toccati dalla loro drammaturgia e sulla situazione attuale del teatro, del pubblico e della critica in Italia. È un dialogo aperto, senza pretese, che vorremmo allargare a tutti i lettori, invitando ad armarvi di pazienza e curiosità, e – ancora più importante – ad arricchire questo momento di confronto con le vostre considerazioni.
(Per chi fosse interessato alla prima parte di questa intervista, più canonica e informativa, vi rimandiamo a: Intervista a Cristiana Minasi: «il teatro sul limite» della coppia Carullo-Minasi)
L’omaggio alla letteratura è molto presente nel vostro teatro; giusto per citarne alcuni: Socrate, Platone, Kafka, Beckett, Ionesco. Tutti autori che hanno messo in discussione il concetto stesso di conoscenza. Credete anche voi che la conoscenza possa rappresentare un grande limite?
Sicuramente. Ci siamo profondamente resi conto di quanto la conoscenza non esista, di quanto ormai purtroppo si proceda per modelli imitativi e non piuttosto creativi. Noi stessi, a fronte di una dimensione italiana che procede per quiz e non piuttosto per fogli bianchi che diano luogo a una creatività personale e individuale, crediamo in una conoscenza che diventi essa stessa paradosso, cioè una cosa è vera ma può essere vero anche il suo contrario.
Da qui deriva anche la vostra valorizzazione del vuoto che in fondo è il pieno stesso.
Sì, che per noi poi è il teatro. Noi proponiamo il paradosso del doppio. Perché una persona viva in teatro deve dare luogo a un attrito non solo con l’altro, non solo in un conflitto relazionale, ma anche interno. Si lavora sui sentimenti: i sentimenti stessi sono doppi, sono complessi. Quindi per me la conoscenza è complessità.
Dunque anche il recupero di una diversità che stimoli la curiosità.
Diversità sì, ma nell’accezione più straordinaria e normale. Perché ormai va di moda la parola diversità. Strumentalizzano anche noi due per dire che siamo due diversi, ma noi diciamo che l’umanità è propriamente fatta di diversi, anzi dovrebbero insegnare a scuola la diversità e in forza di questo, forse, potremmo essere tutti uguali.
Da questo punto di vista T/Empio è forse più efficace ed esplicito di Due Passi sono?
T/Empio vuole essere proprio la messa in atto dell’azione, dell’atto stesso, che in questo caso si traduce nel metodo socratico, cioè nel mettere in discussione. Perciò lasciare questo testamento che diventa proprio un metodo messo in atto.
Ma anche un tentativo di recuperare la libertà.
Noi non siamo più liberi, perché non ci hanno insegnato ad avere dei paletti all’interno dei quali muoverci per poter essere liberi. E questo è fondamentale.
E nel teatro c’è libertà?
Io nella mia ignoranza penso che comunque il teatro sia morto, perché procede proprio per imitazione, quindi è la morte. Se io mi mettessi a fare una cosa che non mi riguarda, che non c’entra niente con me è chiaro che: cosa vedi? Un’aberrazione.
Il vostro è un teatro di parola che però pone in forte dubbio la comunicazione. Come direbbe provocatoriamente Antonio Rezza: è auspicabile un ritorno all’analfabetizzazione?
Sì, noi ci speriamo, perché noi svuotiamo la parola. L’obiettivo vuole essere quello di immaginare la parola come fosse un contenitore vuoto perché ci si possa trasferire dentro un soffio di vita che è fatta di esperienza, un’esperienza che è fatta di fatti.
Dunque la necessità di rivalutare e recuperare l’errore?
Certo. [Anatolij, NdR] Vasiliev ci spiegava che i bambini, ad esempio, li si deve lasciare liberi di sbagliare: sull’errore loro ricorderanno; però intanto lo riempiono del contenuto di un’esperienza: piena e ripiena e rigonfia di errori che raccontano la tua vita, sennò le parole sono niente e invece così diventano esperienza condivisa, vissuta. Ora ci sono un sacco di parole super complesse di cui la gente si fa portatrice ma che non raccontano niente, creano una conoscenza che non è data dall’esperienza.
Qual è il confine fra parola e azione?
Spesso si parla di azione a teatro. L’azione nel momento in cui tu la nomini è morta. Quello è l’obiettivo cui dovrebbe giungere il teatro. In T/Empio noi cercavamo di dare luogo ad un’azione che poi era il processare, io ho giocato sul termine “Azione processuale”, cioè noi processavamo in questo caso le parole perché – chissà! – qualcosa potesse accadere. Era un venire meno della certezza.
Un’operazione per sottrazione che però in realtà va ad aggiungere.
Ad aggiungere una possibilità laddove ti rendi conto che stai su un baratro.
Cercare di affermare con il silenzio, con il vuoto, con il non detto: è la cosa più difficile da fare in fin dei conti; forse il teatro di parola canonico che riempie le grandi sale non riesce più a dire nulla?
Sì, sì ed è pazzesco, perché non è correlato all’azione scenica. Per esempio. Quando lavoravo a teatro la prima indicazione che mi veniva proposta era: poche parole ma riempite di quei silenzi, di quell’atmosfera, di quella condizione in forza della quale tu poi, in conclusione, la pronunci, cioè, quella parola diventa l’apice ultimo di una profondità vissuta. E quindi ti rendi conto di come le pause esse stesse diventino parole.
Forse c’è una paura del silenzio, c’è una paura del vuoto.
Appunto, del non fare.
Del non sapere e poi ritorniamo giustamente al tema centrale di T/Empio, che è il terrore.
Sì sì sì, il terrore del baratro che non si vuole guardare, che fa paura, sì.
Nei vostri spettacoli comunque c’è anche molto umorismo, quasi alla Pirandello.
Sì e molta ironia.
E c’è anche l’idea di riprendere le commedie in bianche e nero degli anni Venti, come la sagace imperturbabilità dei film muti di Buster Keaton?
Io ho lavorato molto con l’idea del clown: è molto sorprendente quanto la poetica di un certo tipo di clown possa insegnare. Perché lì veramente si fa il niente, ma in quel niente c’è tutto. Lì ci si sorprende ininterrottamente. Si ricomincia sempre tutto daccapo. E questa sì è una cosa che noi volevamo mettere.
Credete anche voi che il grande pubblico sia ammalato di narrazione, che la linearità della cultura pop abbiano spento il suo senso critico?
Io credo che il pubblico deve ricevere la medesima dignità che ha ricevuto l’artista. La gente non è educata a potere credere e poter avere fiducia. Il pubblico secondo me è abituato a un qualcosa nella misura in cui gliel’hanno imposto, come a scuola si impone un certo tipo di educazione. Dico, io vorrei che la gente si alzasse e buttasse le arance anche durante il mio di spettacolo, io voglio avere paura del pubblico.
I vostri spettacoli sembrano in qualche modo tendere in questa direzione, come a svegliare il pubblico dal sonno collettivo.
Noi finiamo sempre per superare una soglia e inevitabilmente per renderci parte del pubblico. In Due passi sono noi non raccontiamo che ci spostiamo, ma appena accenniamo che si esce, all’improvviso sono tutti coinvolti: da qui la provocazione della luce sul pubblico. Siamo tutti coinvolti, non pensiate che siamo noi a darvi la possibilità di avere una risposta, di avere una certezza, ora siamo tutti dalla stessa parte. La stessa cosa in T/Empio, c’è una provocazione sotto quella che diventa un po’ la tomba di Socrate che dice “Torno subito” però è rivolta volutamente al contrario, perché loro siamo noi, il pubblico è la giuria, siamo noi che creiamo le regole.
Il cosiddetto sistema infatti siamo noi.
Ma non lo sappiamo più. Chi si siede da quella parte pensa che chi sta dall’altra parte gli dà una risposta: è gravissimo.
Si dovrebbe ritornare allo sfondamento della quarta parete?
Si noi giochiamo spesso sulla metateatralità. Per cifra stilistica ma anche come provocazione tematica importantissima. In Conferenza tragicheffimera io lavoro proprio come se fossi immersa nel pubblico, la gente è tutta intorno a me, a cerchio. La forma metateatrale: perché noi siamo loro e loro sono noi. E quindi questo vuole essere una presa d’atto e di responsabilità. Difficilissima.
Se da una parte le istituzioni sono latitanti, non trovi che anche gli artisti tendano all’isolamento? Non credi ci sia bisogno di creare una collaborazione per recuperare il senso stesso della cultura?
Noi siamo da troppo poco tempo dentro, però mi rendo conto della necessità di non essere più sola. Credo che gli artisti dovrebbero fare forza, fare nucleo.
Ma si riesce a rinunciare, ognuno, a un po’ del proprio?
Io non lo so se ci riesco, ma ci devo provare a farlo, ci sto provando. Non so se mi riuscirà, in questo momento lo faccio come una sorta di cura. Si deve fare però, perché sennò diventiamo tutti dei singoli che magari son bravi, però la bravura è come il talento: da solo non basta; bisogna creare comunione di intenti e comunione di principî etici; etici intendo fatti di normalità, di serenità: non ci dobbiamo mangiare.
Ci si può aspettare ancora qualcosa dalla critica? Rispetto a un passato relativamente recente in cui si mostrava più impegnata, più propositiva, più attenta nei confronti dell’arte; come si pone ora la critica secondo te?
Io mi sono resa conto della critica in ritardo. Oggi capisco che siamo in ballo. Ci sono state scritte cose meravigliose grazie alle quali ho imparato molto. Mi sono fatta stimolare da questi giovani critici che mi hanno dato delle suggestioni. Certo è che da un canto i giovani sono appunto approfonditi e spesso, come dire, vittime di loro stessi, perché non possono dimostrare la loro bravura; altre volte lo fanno per attaccarsi la medaglietta, quindi diventa molto pericoloso.
E le grandi firme?
Ormai è scomparsa la critica grande. Certo esistono, hanno la loro autorevolezza, intelligenza, una capacità, però sento che non è seguita; perciò paradossalmente è più seguita la critica via internet. Però per me la critica con la “c” maiuscola è un pezzo fondamentale alla stregua dell’organizzazione, della gestione dello spazio, delle compagnie, perché sennò tutto impazzisce e diventa sciapo.
Ritorniamo al teatro di oggi. Da una parte una tradizione obsoleta ma pur sempre valida ed efficace, dall’altra un’iconoclastia moderna che spesso confonde l’originalità con la distruzione. Voi demolite parecchio, eppure concludete sempre proponendo qualcosa.
Sì e questa è una nostra cifra caratteristica. Ti dirò, Emma Dante (di cui ho grande stima e un profondo rapporto d’amicizia fatto dell’osare e/o meglio rischiare) al tempo ci disse: “Io non li avrei fatti uscire”, per i Due passi. E io dissi: “Emma, apparteniamo ad un’altra generazione, noi abbiamo bisogno di uscire”. E ci siamo resi conto che questi spettacoli vogliono lanciare un segno di luce, un segno di salita: è inevitabile. Sinceramente l’abbiamo vissuto personalmente come esperienza e ci rendiamo conto che la vita funziona nella misura in cui tende a un qualcos’altro, perché sennò è veramente una beffa la vita. Sai già come va a finire. Veramente: “Vivere bene per morire bene”.
In Alma Giorgio Rossi dice: «Amo quando dopo la musica c’è il silenzio. Forse la vita va vissuta per il silenzio che c’è dopo.»
Appunto, io odio gli applausi, mi sembrano una cosa così violenta.
Come vorresti che si concludesse un tuo spettacolo?
Con il silenzio. Vorrei che si concludesse come i funerali.
Un funerale da cui può rinascere qualcosa
Certo. È dal limite che viene fuori l’opera d’arte. Io penso alla gente che se ne torna a casa. E penso che ce ne torniamo tutti a casa con uno stesso dubbio. Questo è. Io vorrei il vuoto. Quello spazio bianco del teatro: che la gente se lo portasse a casa e pensasse veramente che per strada ci sono tanti vuoti che si possono riempire. Anche quando camminiamo in fondo riempiamo un vuoto.