Insulti al Pubblico – Fabrizio Arcuri
Se vi aspettate di essere insultati, ahimé, c’è da rimanere delusi: sarà difficile che qualcun altro nella vita vi tratterà meglio di così. D’altronde è cosa risaputa, la drammaturgia contemporanea ha il tremendo difetto di deludere sempre le aspettative. Per quanto uno si informi, si tenga aggiornato, provi anche a prepararsi psicologicamente, non c’è niente da fare: ti aspetti uno spettacolo sperimentale, qualcosa di difficile, complesso, una di quelle storie ingarbugliate o scioccanti che ti faranno rimpiangere di aver pure speso dei soldi, e invece no, niente, vai a teatro e ne esci più ricco di prima.
Nessuna descrizione, nessuna definizione, non aspettatevi di leggere “lo spettacolo portato in scena dalla compagnia Accademia degli Artefatti è…”, no, tutto il contrario: bisogna capire appunto che Insulti al pubblico non vuole essere niente, non vuole dover obbedire cioè al principio di identità, a quell’impossibile idea di corrispondenza per cui “x =” eccetera. Perciò, non dovendo essere qualcosa, ma volendo esserci (viene pur «manifestato» in un teatro), cosa se ne può dire? Che se spettacolo è (e poco importa rispondere a una parola), è uno spettacolo che mette in (buona) crisi l’atto stesso di spettare e dunque chi per primo lo esercita: lo spettatore.
Cos’è che accaduto in fondo? Due attori (Daria Deflorian e Pieraldo Girotto) hanno recitato un testo (di Peter Handke – la regia è di Fabrizio Arcuri); già, niente di strano, direte voi. Ma lo hanno fatto così bene da far credere che la continua dilazione di un avvio nascondesse l’assenza stessa di un testo: testo che era continuamente evocato nelle parole ma negato nei fatti eppure al tempo stesso confermato dallo «spettare» del pubblico. Tutto ciò a sipario chiuso, lasciando gli spettatori soli sotto i riflettori, soli fra di loro, soli con sé stessi: una contraddizione che spettava loro e loro soltanto sbrogliare.
Il più grande insulto, insomma, è stato rendere lo spettatore consapevole del suo ruolo, fino a lanciare l’inaccettabile affronto di emanciparlo.
Scongiurando lo strabismo del guardare passivo, Insulti al Pubblico si nega a sé stesso, cioè al suo essere spettacolo e dunque al dover porsi – il pubblico – quale spettatore; la conseguenza di tutto ciò è che non si ha più bisogno di seguire lo spettacolo (che in quanto spettacolo, infatti, svelato l’espediente, perde di mordente), ma di seguire sé stessi nell’essere lì a spettare.
Come recita la splendida Delforian:
La scena vuota non rappresenta il vuoto, la scena è vuota.
In pochi però, ieri, sembrano aver risposto, la maggior parte non ha saputo sganciarsi – disengage – dalla convenzione «spettacolo», e come in un esperimento di Pavlov, anche quando il pasto è stato esplicitamente negato, il tintinnio della parola detta ha continuato a scatenare la salivazione edonistica dell’aspettativa. Di quali e quanti altri insulti abbiamo bisogno?
La Pelanda, Roma – 7 settembre 2014