Indubitabili celesti segnali – Francesco Petti | Compagnia PolisPapin
Ne Le tre sorelle, Čechov raccontava la vita di Ol’ga, Irina e Maa intrappolate nella realtà asfittica della provincia russa, che vivevano il miraggio di Mosca come il riscatto di un’intera vita fatta di sogni e aspettative. Ora, immaginiamo di sostituire samovar e kvass con santini, ceri, altarini e altri cimeli cattolici, ed eccoci calati nella realtà provinciale del profondo Sud di Indubitabili celesti segnali, spettacolo ispirato alle opere di Enzo Moscato (tra cui Festa al nobile santuario), per la regia di Francesco Petti.
In scena le tre sorelle Annina, Elisabetta e Maria accolgono il pubblico su tre bauli colorati, come a rappresentare le altrettante condizioni della donna che verranno via via indagate nel corso della messinscena: il mutismo, la cecità, la falsa gravidanza. Solo Maria (Valentina Greco) è muta fin dall’inizio, costretta quindi a subire le prepotenze delle due sorelle dalla personalità forte e ingombrante (Cinzia Antifona e Francesca Pica).
E in effetti l’atmosfera iniziale risente di vaghi echi čechoviani. È la vigilia dell’otto dicembre e il tempo sembra annullarsi tra pettegolezzi, preghiere e scongiuri senza che nulla veramente accada; si fa largo però la rappresentazione di una realtà meridionale, teneramente retrograda, ancorata a rituali obsoleti e superstizioni: una realtà che non fa da semplice sfondo, ma che rappresenta bensì l’essenza stessa permeante la drammaturgia, simbiotica con il linguaggio di Moscato quel napoletano quotidiano, arcaico e viscerale del Vascio ; una realtà insomma che le attrici interpretano con la passione e la veracità di donne devote e al contempo attentatrici, senza soluzione di continuità.
In questa casa di zitelle, vergini e martiri, ecco però che il castigo di Santa Lucia non tarda ad arrivare: un velo celeste fuoriuscirà dal corpo della muta Maria, trasformandola nella reincarnazione della Madonna, gravida come la pedina di un grottesco presepe; un velo, proprio lo stesso che coprirà, poi, gli occhi di Elisabetta, rendendola cieca. Così, sotto lo sguardo vigile della Madonna, le due sorelle riprenderanno le chiacchiere della loro piccola vita. Se le sorelle čechoviane, infatti, pur nelle loro speranze illusorie, aspiravano comunque a una vita migliore, ora le nostre si limitano a vivere la quotidianità senza uno slancio ulteriore, nutrendosi appena della linfa vitale dei propri rapporti sterili, chiuse nei saldi confini familiari, perché uscire da lì indubbiamente – fa troppa paura.
Alla fine, quella Madonna sul piedistallo, simbolo di un’Italia chiusa in se stessa, piena di pregiudizi, ancora illusa che la mano divina scenderà a riscattarla dal pantano in cui si è affossata, prenderà vita e, soprattutto, parola – in un epilogo inaspettato dalle tinte noir, dove la placida Maria, come un angelo sterminatore, si vendicherà di anni di repressione e cieca ubbidienza. Forse, allora, proprio in questa sana ribellione si nasconde la speranza del riscatto, della liberazione da una mentalità provinciale che schiaccia l’identità sotto il peso dell’ignoranza e dell’apatia; quella stessa speranza che le čechoviane Olga, Irina e Maa non tramutarono mai in azione.
(Foto ©Jacopo Naddeo)