Inciampare ‘In punta di piedi’
Il sogno infranto di Biancofango
In una società insicura come la nostra in cui l’ideale della democrazia frana continuamente sotto il peso della rincorsa al successo, al consenso, all’affermazione a tutti costi, anche la cultura finisce per assecondare l’odiosa tendenza al divide et impera. Religione contro scienza, politica contro economia, arte contro sport, quasi che la vita fosse un continuo campo di battaglia: l’importante è prendere una posizione, cioè diventare un utente, un elettore, un consumatore, un target immediatamente identificabile, cosicché la macchina possa macinare pasciuta il suo capitale mentre le parti si scannano a vicenda alimentando inconsapevolmente il meccanismo.
Il congegno però è molto più fragile di quanto sembri – l’emotività della finanza lo dimostra –, basta infatti astrarsi un attimo da questa ramificata convenzione (cui nessuno difatti conviene—questa è la vera beffa della democrazia) ed ecco che il motore si ingolfa. Questa, a scrutare bene, è la riflessione che si annida in potenza tra le ombre di In punta di piedi, spettacolo di esordio della Compagnia Biancofango ritornato in scena al Teatro dell’Orologio a dieci anni dal suo debutto.
Si parte appunto da una linea: «di qua», «di là». Andrea Trapani entra nella piccola sala Gassman, tuta sportiva, raccoglie un sacco di gesso, ne sparge la polvere in linea retta da una parete all’altra. Al «di qua» una panca soltanto, al «di là» il pubblico. Ma non solo. Già perché quello di Biancofango sarà un continuo gioco di frazione e rifrazione. «Di qua» è la panchina dove il giovane Mastino, terzino di riserva, assiste alla partita che va in campo «di là»; «di qua» perciò è dove c’è il mister che si sbraccia e chiacchiera con il diciottenne (unico in scena, Trapani si spende con grande sensibilità e energia); «di qua» è il mondo che il ragazzo si è inventato, la sua bolla impermeabile, dove si immagina un’alternativa, dove sogna il successo, l’affermazione, le ragazze.
Quando finalmente il ct lo fa entrare, però, «di qua» e «di là» non si sovrappongono come Mastino immagina: la realtà fa irruzione nella dimensione interiore, spezza le fantasie e infine espelle. Ma espelle cosa? E da dove?
Questo semplicissimo gioco di «di qua» e «di là» rende perfettamente, in realtà, il conflitto tutto umano tra ideologia e realtà. Da una parte, la nostra maniera di immaginare (rappresentarci) le cose: i nostri desideri, i nostri timori, i nostri principî, ecc.; dall’altra le cose, senza attributo o nome alcuno. Mastino idealizza (si astrae da ciò che lo circonda); ma idealizza anche il mister (la partita che i suoi giocatori dovrebbero giocare e quella che giocano davvero); e così specularmente idealizziamo noi spettatori, che ci abbandoniamo alla finzione credendola vera ma giudicandola poi da falsa (l’attore “è stato bravo”, non l’uomo).
In punta di piedi (di Francesca Macrì e Trapani) parte allora dall’immediatezza della quotidianità per dischiudere poco a poco vuoti che reclamano risposte, senza mai trovarle, ritornando così all’inesplicabile di quella stessa quotidianità che ora appare molto meno banale e ovvia di prima. Non solo lo sport si presta perfettamente a questo intento, ma nella sua valenza antropologica, per così dire (cioè nel suo riproporre ludicamente quel conflitto interiore di ogni uomo), spinge a domandarci per cos’è che ci prepariamo ogni giorno, se questo costante allenamento all’abnegazione, all’attesa, alla sopportazione ci aiuti veramente ad affrontare meglio la realtà o se invece ci porti a idealizzarla sempre di più, alimentando ulteriormente lo scarto fra sogno e vita.
In punta di piedi o con i piedi per terra? Tertium datur.
Ascolto consigliato
Teatro dell’Orologio, Roma – 17 marzo 2016