Ph. Simone Galli_Pezzi

In equilibrio sul Fringe

La settima edizione del Roma Fringe Festival

«Il Fringe è il più importante festival mondiale di spettacolo dal vivo. Un evento che si replica in ogni capitale culturale del mondo. Nato nel 1947 a Edimburgo, conta oggi circa 240 festival annuali, dall’Australia agli Stati Uniti, dall’Asia alla nostra Europa.»

Andiamo a vedere, allora, ad annusare un po’ di quell’aria cosmopolita che lascia presagire questo vivace incontro di voci, percorsi e riflessioni dal respiro internazionale nella Capitale. Gli spazi sono quelli della Pelanda – nuovi al Roma Fringe Festivalmemori ancora della vivacità che aveva contraddistinto, nel mese di settembre, la XIII edizione di Short Theatre. A una prima e rapida occhiata, non riusciamo a scorgere quei tratti specifici che un festival come il Fringe dovrebbe assecondare. Tentiamo dunque un’immersione totale che ci permetta di orientarci al meglio all’interno dell’offerta performativa del festival che – svoltosi dal 7 al 28 gennaio sotto la direzione artistica, quest’anno, di Fabio Galadini – è giunto ormai alla sua VII edizione.

La Pelanda

L’esigenza di abitare, di attraversare lo spazio, da parte di uno spettatore più o meno critico e consapevole, è forse penalizzata anche da un’attenzione, una cura, diremmo fragili e precarie, riservate alle compagnie ospitate. Soprattutto nel delicato momento della messa in scena, che vede la simultaneità di due spettacoli, in spazi così attigui da sovrapporre parole, musica, da invadere lo spazio altrui, distraendo e a tratti confondendo lo spettatore. Eppure, attraverso cartelli affissi in prossimità delle sale, ci si era premurati con gli astanti «di tenere i volumi delle voci e dell’audio bassi» poiché «nello spazio ci sono spettacoli in corso.»

Nella generale impressione che tutto si sia svolto un po’ sottotono, diventa difficile rintracciare un fil rouge all’interno degli spettacoli in programma, caratterizzati da un livello qualitativo disomogeneo. Tuttavia, ci è sembrato che alcuni di essi abbiano affrontato, con maggior acume rispetto ad altri, un’indagine che muove da una proposizione intimista in grado poi di riflettere sulla portata rivoluzionaria, e spesso silenziosa, del percorso artistico.

Come rispondono dunque gli artisti a questa esigenza di indagare e riflettere sui rapporti umani e sulle contraddizioni della contemporaneità, che necessitano di essere interrogate?

roma fringe festival

Quanta felicità!» ripetono, alla stregua di un ritornello – come a scandire il ritmo lento e monotono delle loro vite – le tre donne protagoniste dello spettacolo della compagnia catanese Madè, La felicità. Un’eco che attraversa le pareti domestiche divenute ben presto mura di una fortezza, in cui rimangono ingabbiati sogni irrealizzati, un’infanzia e un’adolescenza conclusesi troppo in fretta e sentimenti di cui non restano che le spoglie.

Siamo nel 1968, e Catania sembra essere investita da un’onda crescente di industrializzazione, che ne modifica in maniera inarrestabile l’assetto urbano. Le donne, mogli riverenti e madri premurose, elencano gli agi e i beni di consumo eletti a simbolo dell’ancora imperante boom economico: i due giri di perle, il televisore in salotto e, ogni mattina, la iris al cioccolato – «70 lire di felicità!» – al ritmo delle spensierate canzonette Quando m’innamoro di Anna Identici e Io ti darò di più di Orietta Berti. Realtà ovattate ma stridenti, che non riescono a nascondere fino in fondo la drammatica consapevolezza che fuori dalla loro casa «ci sono posti bellissimi» e «luoghi dove le donne si riuniscono e parlano di problemi».

Il mondo dentro quelle mura domestiche – raccontato da Roberta Amato, Giorgia Boscarino e Luana Toscano – non si discosta, in fondo, dal ritratto che di questo nostro Paese, preda di un imperante oscurantismo e di un ritorno alla caccia alle streghe, «ci danno a bere i signori del tempo[1]».

Ph. Antonio Parrinello_ La felicità

Madè La felicità. Foto©Antonio Parrinello

Con PezziMiglior Spettacolo e Premio della Stampa di quest’ultima edizione del Fringe – la regista Laura Nardinocchi, della compagnia Rueda Teatro, compone uno spazio scenico che diventa territorio – anche interiore – da esplorare, e con il quale interagire. Le protagoniste di questa storia percorrono, con movimenti energici e nervosi, traiettorie che sembrano rendere ora possibile, ora incerto, l’incontro. Tre donne, una madre e due giovani figlie, danno vita ad un canto corale fondamentale all’elaborazione del lutto che le ha colpite. E i cubi di legno disseminati lungo il percorso – custodi di ricordi o semplice nascondiglio – ridisegnano lo spazio, come fossero i pezzi di un puzzle alla ricerca dell’incastro perfetto.

La struttura drammaturgica consente una partitura fisica e vocale fatta di gesti ripetuti e suoni reiterati. Il richiamo insistente al nome di Maria, nelle richieste della madre ad una delle figlie, assume i connotati di una nènia dolorosa, e diviene necessario per ribadire la concretezza dei corpi, dei rapporti, degli affetti, e allontanarne l’evanescenza. Lo spazio viene eletto a luogo in cui ritrovarsi e, nello stesso tempo, separarsi dal “fantasma” della figura paterna che può così rivivere in memoria e ricordo. Il dialogo serrato – arricchito di coloriture dialettali – cede la “parola” al movimento del corpo, sede dello scioglimento dei conflitti e della ritrovata speranza nel rapporto umano.

Ph. Simone Galli_Pezzi(1)

Rueda Teatro Pezzi. Foto ©Simone Galli

La compagnia Covello/Bernabéu, infine, alla quale viene assegnato il premio Special OFF e Spirito Fringe per lo spettacolo Un po’ di più, va ancora più a fondo, alla ricerca del movimento, del gesto – indefinito e impercettibile – che si nasconde dietro l’azione. Una donna (Zoè Bernabéu) fa il suo ingresso nello spazio scenico e, con movimenti lievi, misura l’intensità nel calpestare pezzi di una sedia che, prontamente, l’uomo (Lorenzo Covello) cerca di rimettere insieme. È la rivoluzione appassionata del rapporto uomo donna, di contro ad una realtà storica ridotta in frantumi da indifferenza e anaffettività. Un incontro fatto di gesti sapienti, contraddizioni, scontri, messo in scena con la poesia e l’incisività di movimenti del corpo che non necessitano della parola. Anzi, calati in quest’atmosfera sospesa, pare quasi che la parola non voglia venire a disturbare, a frapporsi tra l’uomo e la donna, tra lo spazio scenico e lo spettatore. Sembra che i due artisti vogliano dirci che il rapporto vada cercato lì, nelle sonorità che risiedono nel linguaggio preverbale.

I corpi arrivano a toccarsi, richiamando l’espressività e i movimenti del cinema muto, la delicatezza di Chaplin ma, nello stesso tempo, anche la potenza del Tanztheater. Infine sopraggiunge la parola, ma non per questo spezza l’incanto. L’uomo riconosce alla donna un «fare tutto un po’ più velocemente» e anche «il coraggio di andare via e non pensare come sarebbe potuto essere o come sarebbe stato», mentre la donna, a cui è affidato uno sguardo più profondo sulle cose, lo intima di «imparare a giocare, invece che dormire qualsiasi cosa succeda». Anche la quotidianità, rappresentata da un lungo tavolo sul fondale con il quale gli artisti interagiscono, può diventare elemento di gioco. E allora, l’uomo e la donna si ritrovano, come due equilibristi, a “giocare” con quella che Maxence Fermine chiama «l’arte più difficile. E scrivere, danzare, comporre, dipingere, sono la stessa cosa che amare. Funambolismi.»

Un pò di più

Covello/Bernabéu Un po’ di più

E lo spettatore stesso si ritrova a procedere come un equilibrista, a destreggiarsi lungo l’itinerario – non poco tortuoso – proposto dal Fringe, all’interno del quale è indubbia la necessità di una interazione più solida tra pubblico e spazio, tra spettatore e performer, là dove permane una distanza sottesa ad inibire una vera e propria relazione. Puntare, dunque, con più coraggio e convinzione, sulla valorizzazione degli spazi e sulla possibilità di favorire, all’interno di essi, un dialogo. Sarebbe infatti auspicabile, da parte del festival, una maggior apertura che sappia rispondere con più vigore alle urgenze artistiche e incoraggiare l’emergenza delle fondamentali riflessioni critiche.

Ascolto consigliato

[1] Invocando tempesta, in Mariangela Gualtieri, Giuramenti, 2017

LA FELICITÀ

di Madè
con Roberta Amato, Giorgia Boscarino, Luana Toscano
regia Nicola Alberto Orofino

PEZZI

di Rueda Teatro
regia e drammaturgia Laura Nardinocchi
con Ilaria Fantozzi, Ilaria Giorgi, Claudia Guidi

UN PO’ DI PIÙ
di Covello / Bernabéu
con Lorenzo Covello e Zoé Bernabéu

Grazie


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