La Kranky Records da sempre è sinonimo di qualità – basta leggere i nomi di Low, Deerhunter e Goodspeed You! Black Emperor – e anche questa volta non sbaglia, con il debutto degli Implodes, quartetto di Chicago formato da Ken Camden, Emily Elhaj, Matt Jencik e Justin Rathell. È uno degli esordi migliori di quest’anno, e sicuramente fra i migliori dischi ascoltati sinora.
Black Earth, come ha dichiarato la band, è un posto immaginario simile ad una vecchia stalla piena di insetti morti, con fuori una pila di alberi e tutt’intorno ragnatele e vedove nere che si aggirano minacciosamente.
Un album molto cupo e oscuro dove la distorsione la fa da padrona e cavalca parecchi generi: dall’acid-rock e il Freakbeat al post-rock, dal grunge all’apocalyptic-folk al rock pischedelico e tutto impreziosito da un’atmosfera tipica della dark-wave. Paradossalmente ne risulta un’armonia unica e la deformazione sonora riesce ad essere molto d’impatto e comunicativa. È la perfetta colonna sonora di un incubo o di notti insonni particolarmente inquiete. Le undici canzoni diventano una sorta di pozione per far uscire e conoscere il nostro passeggero oscuro, il lato oscuro di noi che nessuno conosce.
A completare perfettamente il quadro c’è l’artwork che vede sullo sfondo un lago illuminato dalla luce del tramonto e in primo piano l’ombra di una donna con un coltello in mano. Estremamente poetico e raggelante.
La prima traccia Open the Door è un pezzo strumentale che si indurisce col passare dei secondi, mantenendo in sottofondo la chitarra che addolcisce il suono: una sorta di equilibrio che preannuncia una immersione nel buio (e ritroveremo questo aspetto anche nella breve Experential Report). Marker è estremamente lisergica, il luogo in cui lo stile della band di David Tibet più risente delle influenze del folk apocalittico.
White Window (anch’essa strumentale) ha un inizio abbastanza dronico per poi prendere una piega dark.post-rock; molto visionaria, in un film targato Lynch calzerebbe a pennello, considerata la tensione emotiva. Schreech Owl sembra voler ridar fiato col suo primo minuto cristallino, poi però parte una batteria minacciosa, il basso teso e la voce bisbigliata accompagnata da uno spoken word fanno riemergere la sensazione di claustrofobia, che svanisce quando il suono riprende le note iniziali.
Oxblood è forse il pezzo più intenso (emotivamente parlando) dell’album: i sospiri della voce-fantasma penetrano l’anima e creano un vuoto che fa strada al nostro Dark Passenger. Di tutt’altro tenore Meadowland nella quale vengono fuori gli aspetti più shoegaze e grunge della musica degli Implodes. In Wendy sembra di sentire un Mogwai drogato e aspro.
Il capolavoro del disco lo troviamo in Song for Fucking Damon II Trap Door: le chitarre si impennano e pesano come macigni. E’ il perfetto corrispettivo musicale delle parole con cui la band ha descritto la canzone: l’oscurità ha preso il sopravvento. Lo stesso mood lo ritroviamo nella successiva Down Time, ma con un’intensità calante. Hands on the rail, nella quale l’aspetto psichedelico si fonde con un tetro neo-folk, mette la parola fine al disco: la lacerazione è totale.
Senza ombra di dubbio il debutto degli Implodes è da incorniciare e mettere accanto a quelli altrettanto straordinari di James Blake e Anna Calvi. L’approccio multi-genere avrebbe potuto produrre un mezzo disastro, invece il gruppo ha saputo ben orchestrare il tutto ottenendo un risultato di grande potenza.