Il volto fantasma della donna di Ibsen
Federica Fracassi e Luca Micheletti in scena all'Argot con Rosmersholm
Mossa da curiosità e desiderio, disegno con cura la mappa del mio percorso teatrale. Incontro i miei autori, anche quelli già morti, abito le loro parole, invento il nostro lessico famigliare e preparo con pazienza ed eccitazione il pezzo di vita che condivideremo.
— Federica Fracassi
29 ottobre 2017. Roma, Teatro Argot. Entrare in sala significa immediatamente accedere a un luogo «antico», con la stessa solennità che si riserva a una camera ardente. È come essere presi per mano e condotti, insieme a un misto di disagio e meraviglia, nei luoghi intimi e segreti di una storia privatissima.
L’epilogo è già svelato. Disposti su due file lungo i lati dello spazio, osserviamo i corpi di Rosmer (Luca Micheletti) e di Rebekka (Federica Fracassi) che giacciono su due tavoli di legno, illuminati dalla fioca luce di candelabri che rendono i loro volti spettrali e appartenenti a un tempo lontano.
Cosa vuol dire cominciare dall’epilogo? Forse significa raccontare l’impossibilità dell’uomo e della donna ibseniani di comprendersi e di rinnovarsi, di scontrarsi con l’oscurantismo religioso senza riuscire a rifiutarlo, seguitando a credere invece di pensare.
Rebekka e il pastore Rosmer, presso il quale la donna lavora come dama di compagnia, sono uniti da un sentimento intenso che “costringe” l’uomo a spasmi improvvisi di vita, che a loro volta squarciano l’immobilità sottesa al rapporto con la moglie Beata. Ma il desiderio di Rebekka verrà alla fine domato dal paralizzante pensiero religioso che la condurrà, insieme a Rosmer, al suicidio.
Questo tormentato sentire diventa raffinato ritratto nella messinscena di Micheletti, puntuale nel dare espressione alla poetica ibseniana e restituire il dramma esistenziale dell’uomo, emblema della decadente civiltà borghese. Tornano alla mente quelle passeggiate in città tratteggiate da Edvard Munch, in cui le atmosfere glaciali fanno da sfondo a figure simili a marionette, prive di linfa vitale, come in Sera sul viale Karl Johan.
Nel dramma della confessione di Rebekka, cui lo spettatore viene chiamato ad assistere, di aver istigato Beata al suicidio, vi è l’affermazione triste e dolorosa dell’incapacità dell’uomo al cambiamento di fronte al desiderio di una donna, alla quale non sa rispondere. Anche nel momento di maggiore intensità, nel quale i due “amanti” giungono a prendere in prestito l’uno i pensieri e gli abiti dell’altra (senza tuttavia riuscire a vestirsene), Rosmer e Rebekka, l’uomo e la donna, mancheranno all’ennesimo appuntamento.
Le parole prendono forma davanti ai nostri occhi, si fanno audaci, carnali, intimiste e sensuali. Il tutto pervaso da un costante profumo di fiori sparsi ovunque, tanto nello spazio scenico quanto nelle parole, quasi a mitigare il dramma e il tragico epilogo. Invenzione questa che Eleonora Duse aggiunse al testo dello scrittore norvegese, quando nel lontano 4 dicembre 1905 al Teatro Verdi di Trieste e, poi, sempre il 4 dicembre dell’anno successivo al Teatro della Pergola di Firenze (per la regia di Edward Gordon Craig), fu proprio lei, «la divina», a vestire i panni di Rebekka West.
Micheletti e Fracassi si muovono a proprio agio all’interno dell’universo ibseniano, recuperandone gli ambienti, le atmosfere, il retaggio culturale più profondo, frutto anche del percorso personale dell’attrice lombarda nelle terre norvegesi (v. il fotoreportage Nient’altro che finzioni, curato insieme alla fotografa Valentina Tamborra):
In ogni angolo, in ogni sorpresa, questo paese mi ha regalato parole limpide, esatte, e anche un mondo di specchi, dove le nuvole mutando forma si specchiano nell’acqua, che ho compreso essere viva come il sangue. Ogni mattino alzo gli occhi con la nostalgia di qualcosa di più grande che non saprò mai. Questa è la Norvegia. Questo è Ibsen. Qualcosa di più complesso, qualcosa di più grande.
Insieme a Fracassi indaghiamo, così, i nuovi sguardi sull’immagine femminile che pervadono l’arte scandinava, dalle pagine di Ibsen alle tele di Munch: un’immagine che attrae e respinge, sospesa tra realtà e sogno, a tratti demoniaca e tentatrice, protagonista consapevole, insieme all’uomo, di una mortale guerra dei sessi.
Nel ciclo di dipinti conosciuto come The Frieze of Life – Mirror of Life (di cui fanno parte, tra gli altri, L’urlo, Madonna, Vampiro) l’uomo appare solo e malinconico e, anche nel bacio, gli amanti sono incapaci di “vedere” e sembrano annullarsi l’un l’altro nascondendo i volti o, come Rebekka e Rosmer, scegliendo di morire. Un rapporto incerto, quasi impossibile, un rapporto che, seppur intensamente vissuto, conduce inevitabilmente alla perdita dell’identità e all’annientamento fisico.
Ed ecco allora che sulla scena questo viaggio ci viene restituito, insieme ai
passi di una donna, i suoi inciampi, mentre insegue i fantasmi di Rosmersholm che la aspettano già in scena, ingordi del loro stesso ritornare. Un cammino tra anima e sguardo, tra vita e teatro, tracciando strapiombi, picchi, voragini, ombre e luci.
Ascolto consigliato
Teatro Argot Studio, Roma – 29 ottobre 2017
ROSMERSHOLM
Il gioco della confessione
monodramma a due voci
di Henrik Ibsen
riduzione Massimo Castri
da un’idea di e con Federica Fracassi e Luca Micheletti
regia Luca Micheletti
musiche Henry Cow, Jeff Greike, Emmerich Kálmán
assistente alla regia Francesco Martucci
suono Nicola Ragni
sarta Alessandra Bini
foto Manuela Giusto
si ringraziano Antonio Calbi e il Teatro di Roma
produzione Compagnia Teatrale I GUITTI
sotto l’Alto Patrocinio della Reale Ambasciata di Norvegia
e con il sostegno di Innovation Norwaya