A pochi mesi dal successo di Inside Out i Pixar Studios lanciano al cinema un nuovo film di animazione, Il viaggio di Arlo, per la regia di Peter Sohn. Inevitabile allora, vista la vicinanza di uscita nelle sale, provare ad avvicinare le due pellicole evidenziandone punti di contatto e divergenze. Innanzitutto, se con Inside Out si è assistito a una scelta deliberata e riuscita di allargare il più possibile l’orizzonte d’età dei potenziali fruitori, in quest’ultimo caso siamo di fronte a un film che sembra invece rifocalizzarsi su un pubblico più piccolo.
L’intreccio narrativo è assolutamente lineare: negli straordinari paesaggi del nord-ovest statunitense i dinosauri sono scampati fortuitamente all’estinzione. Fra loro, isolata e dedita al lavoro nei campi, seguiamo quindi la vicenda della famiglia del piccolo dinosauro Arlo, minuto e impacciato, timoroso nell’affrontare anche i più semplici compiti che gli vengono affidati da Papo Henry, il capofamiglia, e che sono invece ben svolti dai due fratelli Buch e Libby. Dopo la drammatica perdita del padre e un incidente nel fiume, Arlo sarà costretto a fare i conti con la propria paura e affrontare il suo viaggio iniziatico a ritroso verso casa. Lungo il cammino il giovane dinosauro farà la conoscenza di Spot, piccolo uomo delle caverne e suo contraltare nell’affacciarsi alle sfide e ai pericoli sulla strada del ritorno.
Ancora, se in Inside Out la conquista della maturità da parte della giovane protagonista è rappresentata dalla scoperta, accanto alla gioia, del necessario apporto della tristezza, qui è affrontare la paura il vero insegnamento per ritrovare il proprio posto nel mondo. Mai come in questo caso, forse, trova riscontro la tesi polemica sostenuta da James Douglas (in “Internazionale” n.1120, settembre 2015) a proposito dell’ossessione in casa Pixar sui temi del lavoro, dell’impiego, come unico modo in una società capitalista per l’autorealizzazione. Tutto il film sembrerebbe infatti un grosso affresco della logica stringente che tiene insieme parti e personaggi, ruoli e percorsi, come ingranaggi stabili in un meccanismo efficiente.
Per fortuna, però, entra in gioco l’ironia a smorzare i toni e rendere comunque piacevole quella che in fondo è una storia che non raggiunge per originalità e inventiva le altre punte di diamante della filmografia degli studios californiani. Davvero notevole questa volta oltre alla già citata cura delle ambientazioni la vivacità del character design, ben capace qui di restituire una gamma convincente di creature mostruose e irresistibili.